KURDISTAN (IRAN - IRAQ)
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La guerra tra Iraq e Iran è appena terminata e Mirza, un anziano musicista curdo iraniano, è determinato a trovare la sua ex moglie Hanareh, una cantante di talento che è fuggita nel Kurdistan iracheno con il suo migliore amico. Dopo aver ricevuto un suo messaggio, Mirza convince i suoi due figli, anch’essi musicisti, ad unirsi a lui nel suo viaggio in Iraq per trovarla. Musica, pericolo e romanticismo si fondono nello sguardo toccante del regista Bahman Ghobadi sull'oppressione del popolo curdo.

Genere: drammatico
Colonna Sonora: Arsalan Komkar
Sceneggiatura: Bahman Ghobadi
Produzione: Wellspring
Anno: 2002
Premi: Targa d'oro, Chicago International Film Festival (2002) - Premio François Chalais, Festival del cinema di Cannes (2002) - Premio al Miglior Film, Cervinio Film Festival (2002) - Premio della giuria internazionale, Festival Internazionale del Film di San Paolo, Brasile (2002) - Vincitore SIGNIS Award per il miglior film al IV DeHumalc Human Rights Film Festival di Buenos Aires - Aurora e Don Chisciotte Awards, Tromsø International Film Festival, Norvegia (2003)
BAHMAN GHOBADI
Nato a Baneh, Kurdistan iraniano, nel 1968. Laureato in Regia cinematografica presso l’Iranian Broadcasting College, Ghobadi inizia la sua carriera artistica nel campo della fotografia industriale nel 1998, girando film in 8mm e realizzando alcuni documentari. A partire dalla metà degli anni ’90 i suoi corti ricevono numerosi premi nazionali e internazionali. A dare una decisiva svolta alla sua carriera è il corto Life in fog. Questo è il primo lungometraggio curdo nella storia del cinema iraniano. Aiuto regista di Abbas Kiarostami per il film Il vento ci porterà via (1999) e attore per Samira Makhmalbaf per il film Lavagne (Takhté siah), dopo aver realizzato diversi cortometraggi esordisce alla regia di un lungometraggio nel 2000 con Il tempo dei cavalli ubriachi (Zamani barayé masti asbha). Il film, presentato nella Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2000, vince la Caméra d'or per la miglior opera prima e il premio FIPRESCI. Il successivo Marooned in Iraq (2002) viene presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2002. Turtles Can Fly (2004) vince svariati premi nei festival internazionali, tra cui il Peace Film Award al Festival di Berlino, la Concha d'oro per il miglior film al Festival di San Sebastian, il premio del pubblico al Rotterdam International Film Festival. Due anni dopo, con Half Moon, Ghobadi vince nuovamente il premio maggiore a San Sebastian, mentre nel 2009 è per la terza volta a Cannes, con I gatti persiani, vincendo il premio speciale della giuria del Certain Regard. Ghobadi è il primo regista curdo nella storia del cinema iraniano.
È il 1991 e sulla scia della guerra nel Golfo Persico, le forze di Saddam Hussein stanno devastando i villaggi curdi dell'Iraq, rei secondo il regime di ospitare ed incoraggiare le forze ribelli iraniane. Nel mezzo di questo caos, Mirza, un anziano cantante curdo che vive nel Kurdistan iraniano, si preoccupa della sicurezza della sua ex moglie e cantante Hanareh, che più di due decenni prima lo aveva lasciato per trasferirsi in Iraq, dopo che la rivoluzione iraniana aveva proibito alle donne di cantare ed esibirsi in pubblico. Per oltrepassare il confine iraniano, Hanareh aveva dovuto sposarsi con il migliore amico di Mirza, ma nonostante questo l’uomo non riesce a non amarla. Quando Mirza riceve la richiesta di aiuto di Hanareh, raduna i suoi figli, lo scapolo Barat e il poligamo Audeh, per partire alla ricerca della donna. Nonostante la riluttanza dei due figli, il padre riesce a convincerli e i tre si dirigono a bordo di un sidecar al confine tra Iran e Iraq.
Lungo la prima parte del viaggio i tre uomini vengono obbligati a suonare in un matrimonio, che ha come intermezzo una sparatoria tra lo sposo e il suocero, e vengono derubati di tutti i loro beni tra cui il motociclo, gli indumenti e i denti d’oro di Barat. Tentando di mostrare un ampio spettro di vita curda, Ghobadi sacrifica un po' di urgenza narrativa per mostrare aspetti culturali quotidiani della vita curda.
Con l’espediente di questi siparietti comici, Ghobadi vuole intensificare il contrasto tra la prima parte del film, dove regnano musica, ironia e la tranquilla povertà dell’Iran, e la seconda metà, triste e cupa. Dopo essere stati derubati, i tre uomini vagano tra le montagne innevate dell’Iraq, rese ancora più tetre dalla terribile situazione che i tre uomini si trovano improvvisamente davanti: villaggi rasi al suolo, enormi fosse comuni in cui madri e figlie cercano i corpi dei propri cari, donne sfigurate dalle armi chimiche sganciate per ordine di Saddam e orfani nei campi profughi. La realtà insopportabile del genocidio curdo, non ferma Mirza che è sempre più determinato a trovare Hanareh.
Rimasto solo dopo che Audeh ha adottato due bambini profughi, coronando il suo sogno di diventare padre di figli maschi, e che Barat si è unito alla ricerca nelle fosse comuni del corpo del fratello della ragazza di cui si è innamorato lungo il viaggio, Mirza raggiunge finalmente il campo profughi di Hanareh. Con stupore, rabbia e delusione, scopre che la donna ha dovuto nuovamente spostarsi dopo aver perso la sua bellissima voce a causa dei gas e che Seyed, il suo migliore amico e nuovo marito di Hanareh, è morto. Il suo ultimo desiderio era quello di essere seppellito dal vecchio amico e così Mirza asseconda l’ultima volontà dell’uomo. Quando Mirza raggiunge l’albero vicino al quale è stato messo il corpo dell’amico, parla con una donna che gli viene detto essere la sorella del defunto. In realtà Mirza non sa che quella donna dalla voce meccanica che non vuole farsi vedere in volto per le malformazioni causate dai gas è Hanareh. Dopo aver seppellito l’amico, Mirza viene chiamato dalle donne del campo profughi per affidargli l’ultimo grande dono di Hanareh: la figlia avuta da Seyed. Il buon Mirza si prende a carico la bambina e si mette in marcia per tornare in Iran, sotto lo sguardo di Hanareh che dalla tenda guarda partire gli ultimi due amori della sua vita.
Poesia, umorismo e musica sono i mezzi con cui Ghobadi conduce gli occhi degli spettatori nel mezzo della tragedia del popolo curdo. La devastazione provocata dagli attacchi chimici di Saddam è rappresentata con una forza devastante, non drammatizzando, ma mettendo in luce le conseguenze fisiche e soprattutto psicologiche. Come nell’altro suo capolavoro Turtles Can Fly, Ghobadi non parla direttamente di guerra, ma offre uno sguardo crudo e onesto sulla vita quotidiana dei curdi ai tempi della terribile guerra tra Iraq e Iran.
Il viaggio, sotto forma di migrazione forzata e fuga dalla guerra, è un modo di vivere tristemente comune per i curdi. Ghobadi afferma che questo vagabondaggio è cruciale per la vita curda contemporanea: “La storia dei curdi ha a che fare con il movimento. A causa dell'oppressione, a causa delle guerre, a causa di tutti i problemi all'interno delle loro stesse comunità, sono sempre in movimento. In Kurdistan, non vedi mai un curdo che non va da qualche parte, che non è in movimento. Non puoi inviare una cartolina o una lettera o provare a ottenere un numero di telefono, perché non esiste ... I curdi sono diventati come nomadi". Il termine stesso ‘’marooned’’, che in italiano non trova un corrispettivo diretto, indica l'atto di essere lasciati intenzionalmente in un'area disabitata. Hanareh, una donna curda diventata celebre in ogni villaggio grazie alla sua voce e alla libertà del suo cantare, diventa un mito paragonabile alla ricerca di una patria. La sua bambina è il simbolo della speranza in un futuro possibile per il popolo e la cultura curda.
Ghobadi, attraverso un susseguirsi di canzoni, gesti e conversazioni tipicamente curdi, suggerisce la capacità di ripresa di una cultura in cui la guerra fa parte del tessuto della vita quotidiana. La musica e il canto, così come l’amore e il ricordo, sono le uniche tracce umane da seguire per ricominciare a vivere.
Ciò che tiene uniti i curdi è la cultura, i confini disegnati dall’uomo non sono mai esistiti nei cuori dei curdi. Per mostrare questo fattore cruciale e sempre attuale, Ghobadi preferisce la narrativa rispetto ai documentari. Gli stessi interpreti non sono attori, ma persone incontrate direttamente sul set a cui si limita di dare alcune linee guida, ma che lascia libere di improvvisare per conferire ancora più autenticità alla storia.
Se per il pubblico internazionale è importante conoscere i curdi, è doppiamente importante per i curdi conoscere sé stessi, vedere i loro costumi e ascoltare la loro lingua sul grande schermo. A tal proposito, il sito Indiewire ha riportato un’intervista al curdo iraniano Jamsheed Akrami, professore di cinema alla William Paterson University. Il professore ha descritto l’effetto dei film in lingua curdi sul pubblico curdo: “Immagina come un americano che va al cinema e non ascolta mai personaggi che parlano inglese. Riesci a immaginare quale effetto alienante avrebbe sul tuo senso di identità? Se ti capita di essere di origini curde, questa è un'esperienza comune per te. Ricordo la prima volta che ascoltai la lingua curda in un film. Si trattava di "The Wind Will Carry Us" di Abbas Kiarostami. Ricordo quanto fossi incantato. Quel po’ di curdo che ho sentito mi ha dato questa bizzarra sensazione di come se stessi ascoltando me stesso. . . Stavo ascoltando una lingua che avevo ascoltato solo nei confini della mia famiglia e in nessun altro luogo. Ho provato la soddisfazione di qualcuno che ha perso un oggetto prezioso da molto tempo, e ora lo ha ritrovato." Riguardo i film di Ghobadi ha affermato che ‘’si distinguono come rappresentazioni realistiche della vita curda e del popolo curdo. Vorrei aprire un account separato per i suoi film come la vera rappresentazione della realtà curda. Questo è un regista curdo che definisce la propria cultura e la propria gente."
“I curdi potrebbero non avere teatri dove andare, per guardare film, ma le loro vite si svolgono come un film. La guerra, i combattimenti, tutto ciò fa da sfondo alle loro vite reali... Il loro schermo è il cielo azzurro sopra le loro teste e osservano gli aerei che volano sopra di loro per vedere cosa succederà dopo. Qui, siamo seduti, abbiamo una conversazione molto tranquilla, ma in Kurdistan, se stessimo facendo un'intervista, saremmo in movimento. Non saremmo in un posto. Sono nato quando ero in movimento e probabilmente morirò in movimento. Questa è la storia dei curdi."
Fonti: cicinema.com - indiewire.com - mijfilm.com - cinemas-asie.com - nziff.co.nz - filmfest-muenchen.de - nytimes.com
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