LIBANO
Tempo di lettura stimato: 8 minuti
«Erano soliti passeggiare per la città con abiti di porpora, che al tempo era un colore raro pure tra i re;
e molto richiesto, giacché la porpora era venduta regolarmente come equivalente all’oro»
Teopompo di Chio, IV secolo a.C.
Nel I millennio a.C. i fenici crearono un vasto impero commerciale che si estendeva nel bacino del Mediterraneo. La merce più pregiata era la porpora, nota come viola di Tiro, una tintura ottenuta da un umile mollusco, ma il cui peso aveva il valore dell’oro. Nei secoli successivi la porpora divenne simbolo di potere, ricchezza e prestigio, tanto da essere usata da re, imperatori e membri del clero. Lo stesso termine ϕοινίκεος “fenicio”, utilizzato dai greci per indicare le città-stato di Tiro, Sidone, Sarepta, Arados, Berito (Beirut) e Biblo, significava ‘’purpureo’’. Il fatto che questo appellativo fosse attribuito alle città fenicie, sarebbe una voluta allusione alla produzione dei tessuti porpora che consacrò la loro fama in tutto il Mediterraneo. Del resto, anche l’etnonimo ‘’cananei’’, che a partire almeno dall’età del Bronzo Medio designava la popolazione residente nell’area siro-palestinese, traeva probabilmente origine, a sua volta, dal termine accadico kinakhkhu, indicante il viola-porpora.

Nell’antichità una teoria altrettanto nota sosteneva che il termine greco ϕοινίκεος si riferisse alla figura di Fenice che, secondo una leggenda popolare, era stato l’iniziatore dell’uso della porpora a Tiro. Secondo questa leggenda, il re di Tiro, Fenice, si invaghì così tanto del colore purpureo da decidere che da allora tutti i territori sotto il suo controllo si sarebbero chiamati Fenicia, che significava, infatti, “terra della porpora”, e che tutti i futuri sovrani avrebbero dovuto indossare quel colore in segno della loro regalità. Un’altra leggenda narra che il primo ad utilizzare la porpora fu Melqart, il dio poliade di Tiro. Intenzionato a sorprendere la nereide Tiro di cui era follemente innamorato, il dio mandò il suo fedele segugio lungo le coste del Libano alla ricerca di un regalo degno della sua bellezza. Quando il cane fece ritorno, Melqart si accorse che aveva il muso sporco di sangue. Preoccupato, il dio controllò se fossero presenti ferite, ma si accorse con enorme sollievo e stupore che non si trattava di sangue, bensì dei resti di un mollusco, il murex, che il fido segugio teneva ancora tra le fauci. Appena la saliva del cane si fu seccata, diventò di un vivace color rosso porpora, che attirò l’attenzione della nereide Tiro. La ninfa accettò allora di sposare Melqart, solo se questi le avesse confezionato un vestito dello stesso colore. Quindi il dio raccolse un numero sufficiente di molluschi per soddisfare i desideri dell’amata. Fu così che nacque la cosiddetta “porpora di Tiro”. L’effige del cane che addenta una conchiglia di murice è stata rinvenuta su diverse monete di Tiro risalenti al V sec. a.C., a conferma della popolarità di questa leggenda.

Come si evince dalla leggenda del cane di Melqart, la porpora è un pigmento estratto dal fluido dei murici, dei molluschi che vivono nelle profondità del Mediterraneo. Vivendo in acque relativamente profonde, questi molluschi venivano pescati con reti e nasse, all’inizio della primavera. I pescatori portavano i murici nelle fabbriche di porpora, che solitamente si trovavano a diverse decine di chilometri dalle città a causa dei miasmi provocati dalla putrefazione. La lavorazione dei murici e il processo di tintura ci sono note grazie a diverse fonti latine, in particolare all’opera Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Secondo Plinio la porpora era prodotta in vasi di piombo, con l’aggiunta di acqua e sale. Le conchiglie venivano poi frantumate, affinché dalla ghiandola ipobranchiale dei molluschi fuoriuscisse il liquido. Infine, la poltiglia era lasciata a macerare in acqua salata. Dopo tre giorni, il liquido secreto dal mollusco veniva riscaldato in tini di piombo. Secondo gli studi attuali, si ipotizza che il materiale usato per i contenitori fosse piuttosto lo stagno, dal momento che Plinio fa riferimento a un ‘’piombo bianco’’. Inoltre, quello che il naturalista latino definisce ‘’sale’’ deve essere inteso come nitro, in alternativa al quale si poteva usare anche la cenere di legno: questi ingredienti esercitavano, insieme allo stagno del contenitore, un’azione riducente, necessaria per rendere attiva la tintura. In seguito alla bollitura, la poltiglia era poi filtrata e infine si poteva dare avvio all’immersione della fibra tessile nel liquido ottenuto, di colore giallo. Il viraggio al caratteristico rosso-viola avveniva solamente al momento del contatto con l’aria, a causa dell’ossidazione.
Fin dagli inizi del Novecento è stata individuata la struttura chimica del principio colorante della porpora tiria: si tratta del 6:6’ dibromoindigotina. Molti esperimenti sono stati compiuti anche sui vari tipi di murici utilizzati, per cercare di collegare le diverse gradazioni della tinta ai vari molluschi. Le limitate testimonianze archeologiche relative alla produzione della porpora sono costituite essenzialmente da cumuli di conchiglie, nei settori periferici degli antichi insediamenti, come ad esempio la collina dei murici di Sidone. Da questi ritrovamenti è emerso che la produzione dei tessili avveniva utilizzando telai che potevano essere di tipo orizzontale, fissato al terreno, oppure di tipo verticale, con pesi a sostenere l’ordito. I tessuti impiegati erano la lana e il lino egiziano. Mentre in ambito domestico la filatura e la tessitura erano affidate alle donne, la produzione tessile industriale, invece, doveva essere un’attività prevalentemente maschile.
Le scoperte dei siti di Tell Beit Mirsim e di Ekron, hanno permesso di individuare, inoltre, una possibile connessione fra le attività̀ tessili e la produzione dell’olio d’oliva. Secondo alcuni studiosi, i vasconi in pietra che fungevano da frantoi per le olive potevano essere usati in altri periodi dell’anno per la porpora. In Occidente, depositi di murici sono stati individuati a Cartagine, dove probabilmente la colorazione con la porpora non riguardava solo i tessili ma anche il cuoio. In Algeria, nella zona dei golfi di Orano e di Arzew, sono attestate attività connesse alla lavorazione della porpora. In particolare, nel sito romano di Portus Magnus (Bethioua), sono state ritrovate vasche che potrebbero essere state utilizzate per la macerazione dei murici o la tintura dei tessuti, o in alternativa per la salagione del pescato. A livello testuale non esistono, per ora, fonti fenicie dirette sul processo di lavorazione della porpora, ma questa lacuna viene parzialmente colmata da altre fonti, oltre a quelle latine.
Le prime testimonianze relative all’industria tessile della porpora sono reperibili nelle fonti epigrafiche del Vicino Oriente della tarda Età del Bronzo. Nel 1934, François Thureau-Dangin, archeologo ed epigrafista francese, pubblicò un testo cuneiforme rinvenuto a Ugarit (Siria), in cui un commerciante locale aveva annotato la quantità di lana viola a lui dovuta da dei tintori. Tali testi fanno pensare che la lana fosse distribuita ai tintori per essere colorata, e poi recuperata dai mercanti che la rivendevano localmente o la esportavano. Quelle transazioni commerciali indicano la presenza dell'industria della porpora sulla costa cananea a metà del II millennio a.C. I testi alfabetici di Ugarit riportano, inoltre, i termini relativi ai materiali impiegati nella tessitura (lana e lino) e al personale addetto (tosatori, filatori, tessitori, follatori). Inoltre sono presenti termini riferibili alle tinture (porpora di due gradazioni di colore azzurro-violetto, iqnu, e rosso intenso, phm) e ai materiali da cui i pigmenti sono estratti (conchiglie di vario tipo e una pianta identificata con la Rubia Tinctorum). Negli annali assiri dell'VIII secolo a.C., la lana tinta con la porpora veniva riportata nell'elenco dei tributi al re Tiglat-Pileser III (745-727 a.C.).

Lo storico greco Erodoto all’interno delle Storie (440 - 429 a.C.) cita l’utilizzo della porpora durante l’Impero achemenide: ‘’I mangiatori di pesce, con doni di cui un cappotto viola, un collare e braccialetti d'oro intrecciati, e una scatola di alabastro contenente incenso con un vaso di terracotta pieno di vino di palma. Il re d'Etiopia era sospettoso di Cambise. Afferrando la veste viola, era curioso di sapere come fosse fabbricata. Quando ha appreso la verità sulla tintura viola, ha detto che queste persone, così come i loro vestiti, erano pieni di astuzia". Durante l’epoca romana, Plutarco ne Le Vite Parallele - Vita di Romolo riferisce: "E molte erano le persone che si riunivano, mentre lui (Romolo) stesso sedeva di fronte, tra i suoi capi, vestito di viola", e ancora: "rinunciare ai suoi modi popolari, e cambiare ai modi di un monarca, (…). Perché indossava una tunica scarlatta, e indossava sopra una toga bordata di viola". Al tempo di Nerone veniva imposta la pena capitale, con confisca dei beni, per chi vestiva, o anche solo acquistava, la porpora imperiale. A Costantinopoli, la camera da letto dell'imperatore era dipinta di viola, e suo figlio, che nacque in questa stanza, godeva del prestigio di avere il soprannome di Porfirogenito: "nato nella porpora". La porpora viene citata anche nei Testi Sacri, dove si narra che la porpora era stata donata dal re Hiram di Tiro al re Salomone per realizzare una cortina di stoffa da collocare all’interno del tempio di Gerusalemme. Per definire la porpora vengono utilizzati il termine ebraico tekhelet, indicante la porpora azzurro-violetta, e il vocabolo argaman, che designa la porpora tiria, di colore rosso-scarlatto. L’associazione specifica della porpora con la città di Tiro è confermata da diverse fonti, come i testi omerici, in cui i mantelli purpurei sono associati agli eroi, e nuovamente da Plinio il Vecchio che afferma: "In Asia il viola migliore è quello di Tiro, [...]. È per questo colore che i fasci e le asce di Roma si fanno largo tra la folla; è questo che afferma la maestà dell'infanzia; è questo che distingue il senatore dall'uomo di rango equestre’’.
Emerge, quindi, chiaramente che il rosso purpureo diventò uno status symbol lungo tutte le coste del Mediterraneo. Il prestigio assunto dalla porpora nei secoli, si giustifica con l’elevato numero di molluschi necessari alla tintura degli indumenti e al loro conseguente prezzo. Secondo alcune ricostruzioni, 12.000 molluschi erano in grado di produrre 1,4 grammi di polvere di porpora, sufficiente a colorare solo parte di un vestito. Questi numeri sono supportati dalla quantità di proiettili scartati, rinvenuti nelle antiche fabbriche di porpora. Tali cifre spiegano anche perché la tintura valeva più del suo peso in oro. Cornelio Nepote, storico romano vissuto tra il 100 a.C. e il 27 a.C., cita i prezzi della porpora: ‘’Quando ero giovane, era di moda la porpora violacea e una libbra si vendeva cento denari; non molto tempo dopo era di moda la porpora vermiglia di Taranto. A questa successe la dibapha di Tiro, che non si poteva comprare con mille denari per libbra… ‘’. Da un editto sui prezzi emanato da Diocleziano nel 301 d.C., apprendiamo che una libbra di colorante viola costava 150.000 denari (pari a circa 22.000 euro al momento della scrittura) o circa tre libbre d'oro (1,5 kg circa). Nel V secolo d.C. la porpora e la seta formarono una combinazione vincente e la sua produzione divenne monopolio di stato. Solo l'imperatore poteva indossare questi indumenti di seta (kekolumena) o quelli abbastanza fortunati da ricevere il suo favore, e nessuno straniero poteva acquistarli. Anche gli imperatori erano raffigurati con indosso la porpora di Tiro, come il celebre ritratto a mosaico di Giustiniano I e Teodora nella Basilica di San Vitale (Ravenna).

A partire dal IV sec. d.C., iniziò il declino irreversibile del pigmento di origine marina. Benché ancora all’epoca di Carlo Magno vi siano notizie dell’importazione della porpora dal Libano, in età medievale questo pregiato colorante smette ormai definitivamente di essere prodotto, lasciando il posto ad altri tipi di pigmento. Il colore rosso-porpora (che mostra alcune differenze cromatiche con l’originale viola di Tiro) tuttavia, resterà segno di distinzione e di rango, in ambito religioso e regale, fino alle soglie dell’età contemporanea. Anche se le nuove scoperte archeologiche all’interno del Palazzo di Cnosso sull’isola di Creta, hanno messo in discussione il monopolio della produzione fenicia di porpora, nell’immaginario collettivo i Fenici restano i signori indiscussi di un pigmento che valeva più dell’oro.
Fonti: vitantica.net - researcheritage.com - National Geographic - pheniciens.com - academia.edu - ancient.eu
Scrivi commento