di FARID AL-DIN 'ATTÂR
Tempo di lettura stimato: 6 minuti
Il mio discorso è senza parole, senza lingua e senza rumore, comprendilo senza spirito e ascoltalo senza orecchio.
Le parole di Farid al-din 'Attâr forniscono la chiave di lettura del Mantiq al-Tayr, il verbo degli uccelli, uno dei più raffinati classici della letteratura persiana classica e una delle massime espressioni della filosofia sufi. L’opera fu composta nel XII secolo da Farid al-din 'Attâr, sommo maestro del tasawwuf, la corrente mistica dell’Islam. Come tutti i poeti mistici, anche ‘Attâr trascorse la sua esistenza peregrinando di luogo in luogo, seguendo il cammino metafisico di unione col divino. Della sua vita ci sono giunte poche informazioni. Figlio di uno speziale (attar in persiano), nacque a Nishapur nella regione del Khorasan tra la seconda e la quarta decade del XII secolo. Il maestro trascorse gran parte della sua infanzia studiando presso la scuola teologica annessa al santuario dell'Imam Reza a Mashhad, uno dei più importanti centri di pellegrinaggio dell’Iran. Successivamente, viaggiò nei territori persiani, in Egitto, a Damasco, La Mecca, nel Turkistan e attraverso l’India, seguendo gli itinerari classici dei poeti persiani dell’epoca. Dopo aver pubblicato numerosi scritti in prosa e in poesia, Attar ritornò nella sua città natale, in cui trovò la morte a causa di una scorribanda mongola che mise a ferro e fuoco Nishapur.

Tra le sue opere, considerate tra le più significative della letteratura persiana medievale insieme a quelle di Rumi e Sanâ’i, la più nota è Mantiq al-Tayr, un'allegoria della ricerca umana del Divino. L’opera potrebbe essere stata ispirata dagli hekâyat di Kalila wa Dimna e dal trattato filosofico The recital of the birds di Avicenna, in cui un uccello, simbolo dell’animo umano, viene liberato da una gabbia e intraprende il viaggio verso il "Grande Re".

Temi dell’opera di Farid al-din 'Attâr sono il viaggio, uno dei topoi più ricorrenti della letteratura sufi, e il ritorno alla matrice. Il Sufi è, infatti un viandante che imbocca un sentiero e ne percorre le tappe fino alla completa presa di coscienza che il Tutto è Uno e che l’Uno è nel Tutto. Rumi, l’altro grande maestro sufi che ha fondato la confraternita dei Mevlānā, spiega questo concetto con la parabola dell’elefante.
Un elefante arrivato dall’India era stato sistemato in una stalla buia. La popolazione, curiosa di conoscere un animale simile, si precipitò nella stalla. Poiché non si vedeva nulla a causa della mancanza di luce, la gente si mise a toccare l’animale. Uno di questi toccò la proboscide e disse: ‘’Questo animale assomiglia ad un enorme tubo’’. Un altro toccò le orecchie ed esclamo: ‘’si direbbe piuttosto un grande ventaglio!’’ Un altro ancora, toccando le zampe, disse: ‘’No, ciò che si chiama elefante è senza dubbio una specie di colonna’’. E così ciascuno di loro si mise a descriverlo a proprio modo. È veramente un peccato che non avessero una candela per mettersi d’accordo. (dal libro Racconti Sufi di Massimo Jevolella)

La candela a cui fa riferimento Rumi, è khayyâl, l’immaginazione creatrice. Per comprendere meglio di cosa si tratta, cito una parte della prefazione al libro La lingua degli uccelli edito da Edizioni Mediterranee, scritta da Angelo Iacovella, docente di lingua e letteratura araba presso la Libera Università IUSPIO di Roma:
Il discepolo, liberatosi dall’illusione cosmica che lo circonda, si avvede di quanto il linguaggio ordinario, con le sue ghiacce astrazioni, risulti sommamente inadeguato ad esprimere i contenuti metadialettici di quella Presenza Divina che è il fine ultimo del suo itinerarium. Per trasmettere quel che di ineffabile avrà raggiunto – e sperimentato – durante il cammino, egli dovrà, allora, sì abbandonarsi al ‘’gergo degli uccelli’’; un gergo incomprensibile ai più, il cui vocabolario è costellato di simboli ambigui, di allegorie più o meno trasparenti, di sconcertanti paradossi; meri ‘’supporti’’, questi, nei quali è adombrata, però, una verità più alta, per conquistare la quale occorre, per l’appunto, affrancarsi dai vincoli della vuota cerebralità. Ciò che è possibile al sufi, il quale, a differenza del filosofo o dello scienziato, per ascendere all’ ‘’Amor che move il sole e le altre stelle’’, non si avvale della ragione, bensì di un altro organon, unico nel suo genere: l’immaginazione creatrice (khayyâl). Che è, poi, l’arte regale di trasmettere l’effimero in simboli; di ricondurre il vivente al suo archetipo celeste.

L’itinerarium, chiamato dai sufi sulûk, che l’anima intraprende per distaccarsi dalla dimensione mondana e raggiungere la gnosi, viene proposto da Farid al-din 'Attâr attraverso un gruppo di uccelli che, riunitisi ad un convegno, spiccano il volo alla ricerca del loro bramato sovrano, il Simurgh della mitologia iraniana preislamica, posto agli estremi limiti della terra conosciuta.
Gli uccelli del mondo si riunirono tutti, tanto quelli che sono conosciuti che quelli che sono sconosciuti, e fecero tra loro questo ragionamento: ‘’Non ci sono nel mondo paesi senza re, tuttavia come è accaduto che il paese degli uccelli ne sia privo? Bisogna che questo stato di cose non duri più a lungo, dobbiamo congiungere i nostri sforzi e andare alla ricerca di un re, poiché in un paese senza re non c’è buona amministrazione e l’esercito è disorganizzato’’. Come conseguenza di queste considerazioni, tutti gli uccelli si recarono in un certo luogo per occuparsi della ricerca di un re. L’upupa, tutta commossa e piena di speranza, arrivò e si mise in mezzo all’assemblea degli uccelli. Aveva sul petto l’ornamento che testimoniava la sua entrata nella via spirituale e aveva sulla testa la corona della verità. (…) disse ‘’Abbiamo un re legittimo, risiede dietro il monte Qâf. il suo nome è Simurgh, è il re degli uccelli, egli è vicino a noi ma noi ce ne siamo allontanati. Il luogo che abita è inaccessibile e non potrebbe essere celebrato da alcuna lingua. Ha davanti a sé più di centomila veli di luce e di oscurità. (…) nessuna scienza ha ancora scoperto la sua perfezione, nessuna vista ha ancora scorto la sua bellezza. Le creature non hanno potuto elevarsi fino alla sua eccellenza, la scienza è rimasta indietro e l’occhio ha mancato il bersaglio. Le creature hanno invano voluto raggiungere, con la loro immaginazione, questa perfezione e questa bellezza. Come aprire questa via all’immaginazione, come consegnare la luna al pesce?

Dopo un’ampia disamina dei vantaggi e dei rischi, gli uccelli decidono di mettersi in viaggio attraverso le sette valli, in ognuna delle quali è metaforizzato uno stato spirituale: la ricerca, l’amore, la conoscenza, il distacco, la pura unificazione, lo stupore e l’annientamento. Evidente, anche da questi pochi cenni, l’impianto allegorico dell’opera: gli uccelli simboleggiano i discepoli della confraternita sufi, Simurgh è il Dio nascosto e inaccessibile a filosofi e scienziati, mentre l’upupa, che sarà la guida di questo viaggio, rimanda al maestro spirituale che nelle confraternite sufi guida pazientemente i discepoli alla scoperta del divino attraverso varie stazioni o dimore mistiche.

Il poema è costituito per due terzi da brevi hekâyat tra gli uccelli e la loro severa guida, l’upupa, che esercita un vigile e razionale controllo sulle motivazioni che spingono gli uccelli a intraprendere o sfuggire il viaggio. La sua funzione è ‘’maieutica’’. Dopo aver fatto sorgere dubbi e aver fatto riflettere gli altri uccelli, l’upupa sparisce e gli uccelli dovranno proseguire da soli nelle fasi finali del viaggio fino all’incontro con il Simurgh. Quel che ‘Attâr vuol significare con la sparizione dell’upupa, è che l’elemento razionale, a un certo stadio del viaggio, deve cedere il passo a un altro tipo di guida, a un altro genere di intelligenza, che non risiede nella testa, ma nella purezza del cuore.

Di tutti i volatili partiti, giungono al monte Qâf solo trenta uccelli. Questo numero non è casuale, dato che l’espressione Simurgh è composta dai termini persiani si, trenta, e murgh, uccelli. Gli ultimi uccelli superstiti, ormai privi di piume, forze e speranze, potranno al termine del viaggio vedere finalmente ‘’quella maestà che non si potrebbe descrivere’’. Giunti dinnanzi al monte Qâf, i discepoli-uccelli, ormai orfani dell’aiuto dell’upupa, possono godere della vista insieme reale e irreale di un lago con spire concentriche, disseminato di pietre e metalli preziosi. I trenta uccelli si specchiano sulla sua superficie, diventando così testimoni di un segreto inviolabile e non dicibile a parole. Ecco quindi subentrare i temi del ritorno alla matrice, dello specchio e della inafferrabilità̀ del Dio coranico. ‘Attâr rivendica, a discapito delle tesi scientifiche, la possibilità̀ di giungere direttamente a “vedere” Dio attraverso il cuore, sede di una “intelligenza spirituale” capace di cogliere la Verità della rivelazione.
Fonti: La lingua degli uccelli, Edizioni Mediterranee - gianfrancobertagni.it (Il cuore nel poema mistico persiano Mantiq al-Tayr di Farid al-din 'Attâr, Carlo Saccone) - onartandaesthetics.com - researchgate.net
Scrivi commento