‘’A cosa serve la cultura? Con la cultura NON si mangia’’. Questa frase l’ho sentita pronunciare molte volte. Le mie orecchie hanno dovuto udirla, ma il mio cuore non ha voluto ascoltarla. La cultura, in tutte le sue forme, è la cura della nostra esistenza. Se all’inizio la pandemia sembrava averci unito in nome di una ritrovata fratellanza, ora il veleno della rabbia, dell’insofferenza, dell’incertezza, dell’egoismo e dell’insoddisfazione sta prendendo il sopravvento. Quella frase mi è tornata spesso in mente in questo ultimo periodo. Guardando i social e ascoltando la gente, ho avuto paura. In molti, troppi, stanno dimenticando che la cultura è iscritta nel nostro DNA e che ci ha resi vincenti in situazioni ben peggiori. Sicuramente non sarà un virus ad attentare alla sua esistenza, ma potremmo essere noi stessi a rinnegarla se non saremo in grado di darle il giusto valore. Non possiamo permettere che venga dimenticato il sapore della curiosità, dello stupore, della fiducia e del brivido di oltrepassare le frontiere. Dobbiamo lottare per la nostra libertà, al momento perlomeno quella mentale, di cui la cultura è principale artefice. Ne abbiamo già visto i tanti poteri nelle interviste precedenti, ma oggi voglio portare un esempio concreto di come la cultura non offre cibo solo al cuore e alla mente, ma anche allo stomaco. Per riuscire in questo obiettivo, mi sono rivolta ad un ragazzo che insieme al suo parroco e ad un gruppo di soci, ha dato vita ad un progetto che da oltre dieci anni dimostra quotidianamente che con la cultura si mangia, si spera, si sogna, si cresce e si vince.

Il ragazzo in questione è Vincenzo Porzio, responsabile comunicazione della cooperativa sociale La Paranza, gestrice e promotrice delle Catacombe di Napoli. Il territorio è Rione Sanità, una zona di Napoli nota alla cronaca nera per le piazze di spaccio e la criminalità organizzata. Il progetto di sviluppo, tutela, valorizzazione e apertura delle Catacombe sono un esempio sempre attuale di come il patrimonio culturale possa essere uno strumento per lo sviluppo economico, sociale ed umano.

Vincenzo, come è nato e come si è evoluto il vostro progetto? 

Il progetto nasce ufficialmente nel 2006 con la fondazione della Cooperativa La Paranza. L’idea però nacque molto prima. Don Antonio Loffredo arrivò nel Rione Sanità nel 2001, ma già prima del suo arrivo, il quartiere ebbe altri parroci lungimiranti, tra cui don Giuseppe Rassello, che avevano avuto il merito di individuare quella che era la naturale vocazione di quest’area. Rione Sanità è un quartiere accogliente, ricco di arte, di storia e di umanità. Queste erano le grandi risorse che potevano contrastare le pagine di cronaca nera. Io e miei soci siamo cresciuti in questo contesto, negli spazi di Santa Maria della Sanità. La basilica è sempre stata il nostro centro di aggregazione. Dal suo arrivo, don Antonio ha cominciato a seminare in noi la consapevolezza che quello che avevamo sotto gli occhi poteva anche essere un mestiere. Noi eravamo appena maggiorenni e la realtà del Rione Sanità ci metteva davanti al grande problema del nostro futuro lavorativo. Dovevamo necessariamente cambiare città o potevamo inventarci qualcosa qui, a Napoli, nel quartiere in cui siamo cresciuti? Da quel bisogno personale di inventarsi un lavoro e dall’esigenza collettiva di veder valorizzato il patrimonio che avevamo sotto gli occhi, decidemmo di investire il nostro tempo e di cominciare a valorizzare le Catacombe di San Gaudioso e la basilica di Santa Maria della Sanità. Grazie alle prime visite guidate e ai primi eventi culturali serali, riuscimmo a tessere la rete con i primi stakeholders, che poi nel tempo sono diventati i nostri partner principali, come ad esempio L'Altra Napoli Onlus. Dal 2006 al 2008 è stata una fase di know-how, e nel 2008 partecipammo, vincendolo, al bando della Fondazione CON IL SUD. La vittoria ci permise di iniziare il processo di valorizzazione delle Catacombe di San Gennaro e poi, via via, di raggiungere l’attuale situazione.

Quanti sforzi hanno richiesto gli interventi di consolidamento, di restauro e di adeguamento funzionale?

All’inizio ci vollero circa sei mesi per regolamentare la modalità di fruizione all’interno, soprattutto per i lavori di abbattimento delle barriere e dell’impianto di illuminazione. Poi, per tutelare la pavimentazione, mettemmo la moquette ignifuga. Quindi, nella prima fase, ci dedicammo agli interventi di adeguamento. In seguito, nel corso degli anni, abbiamo fatto altri interventi di restauro, soprattutto grazie alla collaborazione di privati.

I vostri finanziatori sono stati solo enti privati? L’amministrazione locale e gli enti pubblici vi hanno sostenuto a livello economico?

No. Gli enti pubblici non ci hanno sostenuto. Gli enti privati hanno sostenuto progetti specifici, come ad esempio il restauro, il recupero e l’abbattimento delle barriere, ma non sostenevano, ad esempio, i contratti. Il modello di business da noi creato è economicamente sostenibile perché centrato sui servizi che la cooperativa La Paranza offre e vende. La vendita di questi servizi, principalmente le visite guidate e gli eventi, è sufficiente a sostenere l’impresa.

Parliamo ora di un certo tipo di informazione. Rione Sanità, Totò e camorra. Questa è l’immagine che prima del vostro intervento descriveva il vostro quartiere. La camorra fa più audience… Credi che un certo tipo di narrazione mediatica abbia influito ad accrescere la fama negativa del quartiere? 

Beh, sì. La regola giornalistica, purtroppo, è che ‘’una cattiva notizia è una buona notizia’’. Ecco perché si parla di camorra in modo forzato anche quando la camorra non c’entra nulla. Faccio un esempio recente. Quando c’è stata l’esplosione della pandemia, le Catacombe erano chiuse ai visitatori, ma noi abbiamo deciso di impegnarci in altri modi, ad esempio nella distribuzione dei pacchi alimentari. Abbiamo ricevuto chiamate da alcuni giornalisti che ci chiedevano se era vero che la camorra stava distribuendo aiuti alimentari agli abitanti del quartiere. La comunicazione in generale, purtroppo, cavalca delle onde opportunistiche. Questa è stata, ed è ancora oggi, una sfida culturale. Se organizziamo un evento positivo, facciamo tanta fatica per farlo emergere dal punto di vista della comunicazione. Al contrario, le immagini di un omicidio commesso dieci anni fa sono ancora attuali e ogni tanto esce la notizia di rilancio. Per noi la camorra è conseguenza di povertà educativa e culturale. Oggi sicuramente siamo in una fase molto migliorata rispetto al passato. Lo stato è intervenuto in modo abbastanza massiccio negli ultimi anni all’interno del Rione Sanità e di fatto le famiglie storiche non ci sono più. 

Perché Rione Sanità, dopo la costruzione del ponte Maddalena Cerasuolo che lo sovrasta, è divenuto un luogo sinonimo di criminalità, degrado ed emarginazione sociale? Come avete eluso il problema? 

Per chi non fosse pratico di Napoli, il ponte a cui faccio riferimento è un'imponente struttura lunga 118 metri, che unisce via Santa Teresa degli Scalzi e il corso Amedeo di Savoia. La necessità di costruire il ponte nacque nei primi anni del’800 a seguito dell’inizio dei lavori per la costruzione di Corso Napoleone, una strada destinata a fungere da collegamento diretto tra la Reggia di Capodimonte e il resto della città. Fino a quel momento, la reggia poteva essere raggiunta solo tramite un tortuoso percorso in salita e da lì sorse la necessità di costruire un ponte che passasse sopra al vallone di Rione Sanità. Questo imponente cavalcavia (il più lungo di Napoli), acquisì un'importanza tale da essere addirittura preso di mira dai tedeschi in ritirata nel 1943 che, sconfitti dalla rivolta popolare, provarono a distruggerlo per tagliare i collegamenti tra le due parti della città. L'insano gesto fu impedito da un gruppo di partigiani, tra i quali c'era Maddalena Cerasuolo, a cui il ponte è stato dedicato nel 2011. 

Il ponte di fatto ha chiuso il quartiere. Prima della sua costruzione, il rione era una via obbligatoria di accesso a Napoli per chi veniva da nord. Era molto frequentato perché c’erano le catacombe e i palazzi nobiliari lungo la via del pellegrinaggio. Dopo il 1810, anno di costruzione del ponte, il quartiere fu un ghetto tagliato fuori dalla vita della città. Tutti ci passavano sopra, ma nessuno attraverso. Ecco perché divenne un quartiere abbandonato a sé stesso e autogestito. Nessuno si curò più delle condizioni del rione e la conseguenza di questa incuria fu una grande povertà sia lavorativa, sia culturale. Questo determinò gli effetti che sono divenuti noti nelle pagine di cronaca nera. Noi abbiamo cercato di contrastare questo fenomeno riaprendo le catacombe. Di fatto, la riapertura delle catacombe ha significato la riapertura del rione – l’ingresso turistico alle catacombe di San Gennaro è a Capodimonte e l’uscita si trova all’Ospedale San Gennaro detto dei Poveri, nel cuore di Rione Sanità. Con questa apertura, il rione ha cominciato ad essere attrattivo sia da un punto di vista culturale, sia produttivo perché, grazie agli incontri con i nuovi stakeholders, tutte le organizzazioni del terzo settore hanno ricevuto un beneficio.

In una bellissima intervista, don Antonio Loffredo ha dichiarato: ‘’Qui si incontrano ovunque forme di arte e di design. Ma il design più interessante sono questi ragazzi che hanno voglia di sperare.’’ Che cosa ha significato per voi ricevere la fiducia di un uomo come don Loffredo? La speranza può concretizzarsi senza la fiducia?

La fiducia di don Antonio si è tramutata in un mazzo di chiavi. È stato, quindi, un atto di fiducia concreto, molto incentivante sia per la creatività, sia per la motivazione. Nei primi due anni abbiamo messo il massimo impegno in termini di tempo e di risorse, consapevoli del sogno che stavamo andando a realizzare. La sua fiducia è stata un grande stimolo perché da quel momento in poi non sarebbe più stato un successo o un fallimento di don Antonio, ma di tutto il gruppo.

La valorizzazione del patrimonio non solo culturale, ma anche e soprattutto umano, richiede passione, entusiasmo e dedizione. Quali sono stati gli ingredienti del vostro successo?

Ci vogliono fede e amore per fare ogni cosa. La passione e l’entusiasmo sono due dei fattori di successo del nostro fare perché si traducono concretamente in una visita guidata entusiasmante. La guida informa, incuriosisce e fa innamorare. Si ottiene questo perché l’impegno è quotidiano e costante. In quanto cooperativa ci sentiamo attori di un processo di cambiamento che parte da noi. Siamo innamorati e crediamo veramente che il bene riesca a vincere sul male. 

Restando sul tema della fede, la Chiesa, intesa come istituzione, vi ha supportato o l’aiuto è arrivato solo singolarmente, ovvero da don Antonio Loffredo?

No, la Chiesa non ci ha aiutato. È stato soprattutto don Antonio. Le parole di Papa Francesco confermano la nostra linea d’azione, ma tra don Antonio e il Papa c’è la burocrazia. Tuttavia, uno dei pilastri della riforma di Papa Francesco, ovvero il principio di sussidiarietà - “un doppio dinamismo: dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto” - ha confermato la fiducia che abbiamo ricevuto.

A proposito di Chiesa, nel 2018 siete stati oggetto di un caso mediatico per il “contenzioso” tra Vaticano e Arcidiocesi di Napoli. Come si è risolta la faccenda? 

Ufficialmente non è ancora risolta. Il caso in questione era legato ad un cambio di ufficio a Roma che ha determinato una mancanza di comprensione del nostro progetto che ormai si era sviluppato dal oltre nove anni. La polemica è iniziata a nostra insaputa, a seguito di un’intervista, per noi molto negativa, di mons. Pasquale Iacobone, segretario della Pontificia Commissione. Noi non eravamo al corrente di nulla e abbiamo appreso la notizia dai giornali. Questa intervista, fu scatenata dalla visita a Napoli di mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio consiglio per la Cultura. Nessuno era a conoscenza del suo arrivo. I giornalisti iniziarono subito a chiedersi il motivo della visita e del perché non fossero stati avvisati. Lo aspettarono all’uscita dell’arcidiocesi, ma non riuscirono a parlargli. Questo mancato incontro, accese un campanello d’allarme tra i giornalisti, che chiesero di poter intervistare mons. Iacobone. In quell’intervista egli dichiarò che le Catacombe di Napoli andavano trattate come tutte le altre catacombe, le eccezioni non erano previste. Mons. Iacobone si riferiva alla parte economica di un accordo che prevede che tutte le catacombe d’Italia - circa 120 aperte sul territorio nazionale - paghino il 50% degli introiti alla Pontificia Commissione di Archeologia Sacra - un dicastero della curia romana, istituito da Pio IX nel 1852 "per custodire i sacri cemeteri antichi, per curarne preventivamente la conservazione, le ulteriori esplorazioni, le investigazioni, lo studio, per tutelare inoltre le più vetuste memorie dei primi secoli cristiani, i monumenti insigni, le Basiliche venerande, in Roma, nel suburbio e suolo romano e anche nelle altre Diocesi d'intesa con i rispettivi Ordinari". Tuttavia il modello delle nostre catacombe è diverso da quelle del resto d’Italia. In quei casi, il servizio di accompagnamento e guida è spesso fornito da membri del clero, mentre nel nostro caso sono i ragazzi della cooperativa ad avere questo ruolo. Il nostro era un modello sperimentale e, in quanto tale, era sempre stato dispensato dal dover versare il 50% degli incassi. Logicamente, quell’intervista a mons. Iacobone scatenò una polemica mediatica molto forte. Noi non abbiamo mai intrapreso alcuna azione contro il Vaticano. Ad esempio, la petizione che circolava su intenet - 130.600 firme raccolte su change.org - non è partita da noi, ma dalla comunità sia del Rione Sanità, sia dei nostri visitatori. Alcuni giornalisti dissero che era la prima volta dopo oltre trent’anni che il popolo napoletano si era finalmente messo d’accordo per combattere insieme contro un’ingiustizia.

Alla fine avete dovuto pagare il 50% degli incassi arretrati? E in futuro?

No, non abbiamo pagato nulla. Sempre dai giornali abbiamo appreso che non ci avrebbero chiesto niente sugli incassi regressi. Però di fatto non si è ancora parlato di una nuova convenzione futura.

Parliamo ora di un argomento più piacevole: l’effetto WOW. All’inizio di dicembre si è tenuta la quarta edizione dei “Global Remarkable Venue Awards 2020”, il premio che la piattaforma di prenotazioni online Tiqets assegna ai musei e alle attrazioni che, nel corso dell’anno, hanno saputo offrire ai visitatori le migliori esperienze di scoperta. Voi avete vinto il premio come miglior esperienza Italiana. Quali sono gli apprezzamenti e le critiche che vi vengono maggiormente mossi da parte dei visitatori?

Tutti ci fanno i complimenti per il progetto. Il visitatore che viene alle Catacombe di Napoli, viene per scoprire la storia, l’archeologia e un sito sotterraneo. Si aspettano di vedere più ossa, ma alla fine risultano comunque partecipi di un progetto di valorizzazione che è molto altro. 

L’aumento del numero dei visitatori ha coinciso con la diminuzione del numero degli episodi di criminalità? 

No. L’aumento del numero dei visitatori ha scatenato un interesse da parte dell’istituzioni. Quando tre anni fa il Rione Sanità stava ripiombando in uno stato di paura, a causa di una ripresa del fenomeno delle stese - termine usato nel gergo della camorra per fare riferimento ad azioni di intimidazione messe in atto dai nuovi clan come segnale di subentro nel territorio al posto delle cosche storiche - ci fu una risposta da parte dello stato. Purtroppo morì un ragazzo con un proiettile vagante. La camorra non è diminuita. Sono aumentate la coesione del quartiere e le opportunità di lavoro. 

Nelle precedenti interviste abbiamo visto che uscire dal proprio territorio è molto importante, non solo per conoscere culture e persone diverse, ma per vedere come fanno gli altri a gestire la realtà.  Avete mai sentito l’esigenza di uscire da Napoli per vedere come funzionano altre realtà sociali, museali e archeologiche?

Il nostro progetto nasce dalla presa di consapevolezza del nostro valore che è arrivata con i viaggi che facevamo all’inizio con don Antonio. Quando tornavamo a casa, ci rendevamo conto del patrimonio che avevamo davanti ai nostri occhi. Allora pensavamo ‘’beh, anch’io posso farlo’’.

Siete stati invitati in Giappone all’Università di Fukui per raccontare e condividere il vostro progetto. Quanto è stato importante questo scambio? 

Ci hanno chiamato a testimoniare la nostra esperienza. Uscendo dal nostro contesto abbiamo capito di quanto fossimo inconsapevoli del nostro valore. Questo confronto ci ha regalato molte conferme.

Credi che possiate essere un modello riproponibile, con i giusti adeguamenti, anche in altre realtà italiane, europee e mondiali?

Certo. Noi abbiamo operato tenendo a mente questi obiettivi: creazione di posti di lavoro, valorizzazione del bene inteso come tutela e fruizione, coinvolgimento sia della comunità, sia dei visitatori. La disponibilità dei beni e la tipologia del proprietario sicuramente ci hanno molto aiutato. In partnership con altri due enti del territorio di Bacoli, abbiamo vinto il bando per la valorizzazione della Piscina Mirabilis. Questo bando è stato proposto dal Parco Archeologico dei Campi Flegrei ed è molto pioneristico in Italia sul tema del Partenariato pubblico-privato. L’idea è quella di replicare il modello di gestione delle Catacombe. Quindi sì, possiamo essere un esempio riproponibile. La cultura è sociale. La cultura è uno strumento di emancipazione, di contrasto alle disuguaglianze, ma è anche un diritto. Nel nostro caso la cultura è stata la leva per ridisegnare il destino di un territorio.

Puoi parlarci dell’iniziativa “Teniamo in vita il Passato – se resti a guardare non ci sarà più niente da vedere”?

È una campagna di fundraising - raccolta fondi - per l’adozione degli affreschi. Nel 2014 è nata la Fondazione di Comunità San Gennaro che vede tra i soci tutti gli enti del territorio del Rione Sanità, tra cui la rete di commercianti attuali e potenziali, imprenditori e fondazioni di Milano che nel tempo ci hanno sempre sostenuto. Questa campagna, che ha visto coinvolto, tra i tanti, Poste Italiane, molti industriali di Napoli, l’ex procuratore Gargano, ha donato dei fondi che sono stati utilizzati per il restauro di alcune opere, affreschi o zone della catacomba. Dal 2014 le donazioni sono state dirottate alla Fondazione di Comunità San Gennaro che ha l’obiettivo di occuparsi dei restauri.

Come state affrontando questo periodo? Quali conseguenza ha avuto a livello economico e, soprattutto, psicologico? 

È un argomento del quale stiamo parlando proprio in questi giorni perché ci manca l’attività, la carica, le soddisfazioni, il raggiungimento degli obiettivi. Ci manca il ritmo al quale eravamo abituati. Da un punto di vista psicologico iniziamo a risentirne perché è da tanto, troppo, tempo che siamo fermi. Una delle nostre forze è il gruppo. Il nostro staff operativo è composto da circa 40 persone e sta diventando sempre più difficile vederci solo virtualmente. Non abbiamo ancora la consapevolezza del danno. Lo scopriremo nel momento in cui torneremo ai ritmi di prima. Per ora, cerchiamo di progettare il futuro e di immaginare la ripresa, ma purtroppo non abbiamo, come nessun italiano, la sfera di cristallo per capire quando avverrà la ripresa. Purtroppo, anche nei finanziamenti, non arrivano delle proposte che servono a cambiare le fondamenta della situazione.

Ringrazio Vincenzo per il tempo che ci ha dedicato. Se volete seguire le iniziative della Fondazione di Comunità San Gennaro, cliccate sul link. Se invece volete scoprire il fantastico mondo delle Catacombe e tornare (si spera al più presto) a visitarle, potete visitare il sito ufficiale Catacombe di Napoli. Auguro a Vincenzo e ai suoi soci tanta fortuna per il futuro.

Questa è una sfida nella sfida. Oltre a non sapere quando si ripartirà, non si sa nemmeno come si ripartirà. Nel breve periodo estivo in cui esisteva la possibilità di uscire dalla propria regione di residenza, la maggior parte delle persone ha optato per vacanze in mete balneari. In pochi hanno scelto di visitare una città d’arte o luoghi di interesse culturale. Forse andrò controcorrente, ma temo che questa pandemia stia allontanando le persone da tutto ciò che non ha fini o scopi utilitaristici, immediati, semplici. E allora cosa fare? Beh, dobbiamo continuare a crederci, anche con il rischio di perdere prematuramente il fegato. Ma almeno l’avremo perso per una giusta causa, nel tentativo di continuare a tenere in vita quella cultura che non è solo nelle scuole, nei teatri, nei musei, nelle biblioteche o in un biglietto di viaggio, ma che vive dentro ogni piccolo gesto. Tutti abbiamo qualcosa da raccontare, nessuno escluso. Dai tortellini della nonna, all’ultima creazione del tal artista in capo al mondo. Attorno alla cultura si crea energia, entusiasmo, scambio, comunicazione, condivisione, rispetto, empatia, consapevolezza. Tutto e tutti siamo cultura. Lei vivrà se noi continueremo a narrarla e ci ripagherà, facendoci tornare a vivere - non solo sopravvivere - e ad essere orgogliosi di fare parte di un mondo che in realtà, fuori dai parlamenti, così brutto non è, anzi...

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E dopo questa intesa parentesi napoletana, nella prossima intervista lasceremo nuovamente l’Italia per spingerci in un mondo in cui la cultura fatica a competere con una natura dalla bellezza ‘’ingombrante’’: l’Oman. Ad accoglierci sarà Hassan Meer, celebre artista e fotografo contemporaneo che ha fatto il giro del mondo come ambasciatore della realtà artistica omanita. Un volto inedito dell’Oman che merita di essere scoperto e approfondito. 

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