«Tutto dipende dalla volontà di voler vedere la bellezza delle differenze. È in quel contesto che ci si innamora delle altre culture e delle altre persone.»
Gennaro Spinelli
Negli incontri precedenti, grazie al prezioso contributo di Yilmaz Orkan – Responsabile dell’Ufficio di Informazione del Kurdistan – e di Michal Elia Kamal – leader del trio musicale multietnico dei Light in Babylon con sede a Istanbul – abbiamo riflettuto sul tema dell’identità culturale e del valore della diversità. Dopo aver pubblicato questi contributi, mi sono fatta una domanda: noi, italiani educati alla democrazia e alla libertà, siamo immuni dal fascino ingannevole del pregiudizio? Come sentiamo e viviamo il ‘diverso’? Non nascondiamoci dietro a un dito. Tutti, almeno una volta nella vita, siamo stati attirati da mani invisibili nel comodo baratro dell’ignoranza passiva. Cosa fare? Continuare a farsi cullare dalla cieca inerzia del pregiudizio od optare per la sana volontà di conoscere? Io ho scelto la seconda opzione. Ho chiamato in aiuto Gennaro Spinelli, il rappresentante di una popolazione che, nonostante sia presente sul territorio europeo da oltre sei secoli, rappresenta tuttora nell’immaginario collettivo un mondo sconosciuto e, di conseguenza, percepito come pericoloso: i Rom.
Gennaro, vorrei iniziare questa conversazione con qualche coordinata storico-geografica. Dove e quando inizia la storia del popolo Rom?
Quando si parla di Rom, ci si riferisce ad una comunità arrivata nell’attuale Europa tra il 1200 ed il 1300. Il viaggio dei Rom iniziò oltre mille anni fa dalle regioni settentrionali dell’India, ovvero dal Punjab, dal Rajasthan e dalla regione del Sindh, nell’attuale Pakistan. Risulta molto difficile parlare di ‘storia della popolazione Romanì’ perché quando i Rom partirono dall’India non erano Rom, erano indiani. Questo è un fattore molto importante che merita di essere sottolineato. Perché partirono dall’India? Perché si misero in viaggio e percorsero mezzo mondo a piedi? La ragione va ricercata tra l’anno 1000 e il 1017, quando il sultano di Persia Maḥmūd di Ghazni - appartenente ai Ghaznavidi, una dinastia turca musulmana stabilitasi nel X sec. d.C. a Ghazni, città afghana a 150km a sud di Kabul - attaccò per diciasette volte in un breve lasso temporale il nord dell’India. Da razzie e scorribande, da conquiste e distruzione, da deportazioni e violenze, si venne a creare una comunità di profughi costretti a scappare per cercare una condizione migliore. Il loro nome non era Rom, ma Ḍomba, un termine Sànscrito che significa ‘uomo libero’. Arrivando in Persia, territorio in cui rimasero per un lungo periodo, i Ḍomba acquisirono nuovi vocaboli e nuove usanze, tra cui la religione musulmana. Dall’attuale Iran si spostarono prima verso l’Armenia, dove termine ‘ḍom’ si trasformò il ‘lom’, e in seguito entrarono nell’Impero Bizantino per poi riversarsi nell’Europa occidentale tra il XIV e il XV secolo, anche se piccole comunità arrivarono già nel XIII. Nei Balcani la ‘l’ di lom mutò nella consonante retroflessa ‘r’ e si arrivò all’attuale ‘Rom’. A quel periodo risale anche l’arrivo dei Rom in Italia a più riprese, seguendo principalmente la rotta balcanica da nord, via terra, e da sud, via mare. Del gruppo proveniente dal nord sappiamo con certezza che arrivò a Bologna il 18 luglio 1422, poiché l'evento è riportato in un'anonima cronaca bolognese contenuta nella Rerum Italicarum Scriptores pubblicata dall'erudito Ludovico Antonio Muratori nel 1731.
Che ruolo riveste la lingua romanì? Come si è sviluppata e di quali apporti linguistici si è arricchita nel corso della storia-viaggio?
La lingua è l’elemento essenziale da cui iniziare. Se noi oggi siamo in grado di ripercorrere il viaggio della popolazione Romanì dall’India all’Europa è proprio grazie alla comparazione linguistica. All’interno dei vocaboli romanès ci sono ben 800 parole sanscrite ed altre ancora che trovano radice del dialetto indiano parlato nel Rajasthan (che ho visitato per il progetto Romanistan e dove sono riuscito a comunicare anche in romanès). In Iran esistono ancora oggi comunità che parlano un tipo di romanés che ha un centinaio di vocaboli in comune con il nostro romanès. Man mano che ci allontaniamo dall’Europa, si trovano sempre meno parole in comune perché la lingua romanès si è sviluppata arrivando in Europa. Nel corso di questo viaggio, il romanés si è arricchito di molti vocaboli armeni, greci, latini e di prestiti delle lingue parlate nei paesi di provenienza. Attraverso lo studio della lingua, siamo quindi in grado di ripercorrere il viaggio dei cinque principali gruppi che compongono la comunità romanés: Rom, Sinti, Kalé, Manouches e Romanichals. Va precisato che con il termine Rom si intende sia la totalità dei cinque gruppi, sia uno di questi ultimi. In Italia troviamo la presenza di soli Rom nel meridione e di Sinti nel settentrione. Ci sono anche piccoli gruppi di Manouches in Piemonte ed alcuni Kalé in Sardegna.
Romanistan di Luca Vitone è un progetto promosso dal Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, vincitore della IV edizione del bando Italian Council (2018), concorso ideato dalla Direzione generale arte e architettura contemporanee e periferie urbane (Dgaap) del Ministero per i beni e le attività culturali, per promuovere l’arte contemporanea italiana nel mondo.
Attualmente quanti Rom ci sono in Italia, in Europa e nel mondo?
Ad oggi in Italia ci sono circa 180mila Rom, in Europa 12 milioni e nel mondo tra i 14 e i 16 milioni. Ai 12 milioni di europei, vanno aggiunti anche i Rom che si trovano nelle Americhe, in Australia e in Iran. Quelli che noi oggi chiamiamo Rom, sono quei gruppi che migrarono verso ovest. Tuttavia, dopo gli attacchi di Maḥmūd di Ghazni non tutta la popolazione Ḍomba si diresse verso la stessa direzione. Ci furono gruppi che si diressero verso l’attuale Bangladesh, la Cina e, in generale, l’Oriente. Non abbiamo dati certi perché questi studi sono molto recenti ad ancora in fase di sviluppo.
Tramite la creazione nel 1990 - ad opera della Romani Union - di un “alfabeto polidialettale”, si è riusciti a creare una lingua compresa da tutti e, nel contempo, a salvaguardare i singoli dialetti?
Proprio come per i dialetti italiani, anche i dialetti romanés hanno una radice comune che resta fissa. Tuttavia, a causa di sfumature e di accenti diversi, sembrano un’altra lingua. A questo, va aggiunto il fatto che molte parole sono prese in prestito dalle lingue nazionali dei paesi d’arrivo. Nonostante tutte queste differenze, restano tantissime parole in comune che ci fanno capire che siamo ‘fratelli di regioni diverse’, ma a volte non è sufficiente. Ad esempio, in Italia c’è una grande diversificazione tra Rom e Sinti proprio per la questione linguistica che si pone dunque sia come elemento d’unione, sia di divisione. Attraverso la lingua, una cultura si distingue e si identifica. Identificandosi in una lingua, le persone che hanno un dialetto anche leggermente diverso, vengono reputate diverse. È per questo che oggi in molte comunità sinti in Italia si ha la concezione che Rom e Sinti siano mondi estranei. Ad oggi abbiamo un alfabeto unificato che ha aggiunto delle migliorie a quello preesistente del ’90, grazie all’opera di grandi linguisti come Jean-Pierre Liégeois - docente alla Sorbona di Parigi ed uno dei maggiori esperti mondiali delle minoranze rom, sinte e kalé - Matéo Maximoff - il primo scrittore francese rom che produsse le sue opere anche in lingua madre - e mio padre, Santino Spinelli. Si è riusciti, dunque, a creare un romanés standard unificato, che, per ovvie ragioni, ha molto in comune con lo slavo.
Nonostante le differenze linguistiche, religiose e geografiche, i Rom si sentono parte di una medesima comunità? Che idea rappresenta la vostra bandiera?
Assolutamente sì. Esiste un cameratismo tra le persone che soffrono ‘dello stesso male’. Il male dei Rom si chiama discriminazione. In ogni paese del mondo purtroppo la popolazione Romanì viene vista come una setta estranea. La parola che, infatti, ancora oggi identifica i Rom è zingaro, ma noi non ci identifichiamo con questo nome. La nostra bandiera - ispirata alla bandiera indiana - identifica l’orgoglio della popolazione romanés e l’immenso viaggio che i Rom compiono ancora oggi per integrarsi, nonostante siano passati molti secoli dall’arrivo in Europa. Nel 2022 ricorrerà a Bologna il seicentenario dei primi documenti accertati della presenza sul territorio italiano di Rom e Sinti. La bandiera, che presenta al centro la ruota del viaggio tra l’azzurro del cielo e il verde della terra, è stata inaugurata dalla Romani Union Internazionale (IRU) fondata nel 1971 nei pressi di Londra di cui io sono ambasciatore – occasione in cui venne anche adottato l'inno trasnazionale "Gelem Gelem" composto da Janko Jovanovich.
Il popolo Rom è stato una delle grandi vittime della storia. Sentiamo sempre parlare di Shoah e abbiamo da poco iniziato a ricordare il Medz Yeghern, il genocidio degli armeni. Ma dei 500mila Rom (cifra ufficiale, ma forse lontana dalla realtà) morti nei lager, non si sente quasi mai nulla. Perché si parla ancora troppo poco del Porrajmos?
Anche se il termine più utilizzato per identificare il nostro olocausto è Porrajmos, sarebbe più corretto utilizzare la parola Samudaripen, letteralmante ‘tutti morti’, traslato ‘il grande genocidio’. Del Samudaripen si parla ancora poco perché nessuno è stato processato a Norimberga per i reati contro i Rom e nessun Rom è stato invitato al Processo per denunciare i suoi carnefici. Solo da 40 anni i nostri anziani hanno iniziato a parlarne. Prima il Samudaripen era un argomento tabù perché nella nostra cultura non si parla dei morti. Mio nonno stesso, che è stato deportato, ne ha parlato solo negli ultimi anni della sua vita. Solo oggi si sta sdoganando la volontà di parlare. Le cifre ufficiali parlano di 500mila Rom morti nei lager o nelle fucilazioni pubbliche, ma la cifra che si avvicina più alla realtà è tra le 500mila e 1 milione e mezzo di persone. Perché questa grande differenza? Perché la maggioranza delle vittime, tra cui moltissimi Rom partigiani, non furono censite.
Per chi fosse interessato ad approfondire la questione del Samudaripen, consiglio il sito Porrajmos.it
Perché la morte è un tabù?
La morte è un tabù perché all’interno della comunità romanés tutto è dualistico: baxt-bibaxt = felicità-infelicità, Devel-Beng = Dio-diavolo, pativ-laj = onore-vergogna e ÒuÒipé-melli-pé = puro-impuro. Parlare dei morti è un tabù perché lede l’onore del defunto. Qualsiasi cosa detta, potrebbe essere sia positiva, sia negativa. Potendo essere negativa, è meglio non parlarne. Ad oggi, la peggiore offesa che si possa fare a un Rom è parlare dei suoi defunti. Alcuni anni fa le affermazioni sui defunti erano causa di diatribe e scontri tra famiglie, proprio perché si inficiava l’onore.
Che ruolo hanno le donne, e in generale la famiglia, all’interno della comunità?
L’onore di cui parlavamo facendo riferimento al discorso dei defunti, è lo stesso onore che è riputato alle donne. Si parla sempre della soggezione delle donne, mentre invece sono l’elemento essenziale della comunità romanés. La donna ha il potere di trasmettere e di perpetuare le tradizioni, le usanze e la lingua. È ‘portatrice di onore’, un onore che può dare o che può togliere. Ecco perché viene protetta. Un esempio: in passato le donne portavano la gonna lunga fino a terra per non portare vergogna alla propria famiglia e per preservare la pudicità, elemento culturale fondamentale. Ovviamente una cultura che non si evolve è destinata a scomparire. La nostra cultura si è oggettivamente evoluta e questo vestiario non viene più usato. Vale per molte altre cose, ad esempio il matrimonio in giovane età, fatto che non avviene più, se non in piccolissime comunità che vivono nei campi nomadi e che non hanno avuto accesso all’educazione. In quel caso non si parla di cultura romanés, ma di singoli individui che vivono in un contesto sociale assolutamente degradato. Molti sono profughi, non nomadi. Nessun nomade rimane nello stesso posto per oltre 40 anni e queste persone sono nei campi nomadi da oltre quattro decenni. Non si tratta quindi di nomadismo, ma di profughi venuti dall’estero per motivi di povertà o di guerre, che vengono tenuti nei campi nomadi in un contesto sociale degradato per interessi economici. Tornando alla domanda, il concetto di famiglia presso le comunità romanés non si riduce al semplice nucleo coniugale, ma si estende a tutto il gruppo parentale e i rapporti sociali non sono altro che un’estensione di quelli familiari. La società romanì si è dotata di un sistema sociale di tipo “orizzontale”. Questo sistema si basa essenzialmente su una struttura ugualitaria delle posizioni di prestigio all’interno della comunità. Non esistono, pertanto, né re, né regine, né comandanti in nessuna comunità romanì. Esiste però una serie di norme che regolano la convivenza fra i vari membri. Garante di queste norme morali è la kriss, ovvero il tribunale o consiglio degli anziani presieduto dai Phurè (i patriarchi). Essi sono fondamentalmente dei pacieri e sono chiamati a dirimere le controversie e i conflitti che insorgono all’interno della comunità. La società romanì è in continua trasformazione ed è figlia legittima del suo tempo. Le tradizionali culturali, i mestieri e la stessa lingua subiscono un continuo rinnovamento. La famiglia sembra la sola realtà stabile al cui interno si sviluppano legami profondi che uniscono l’individuo al gruppo e viceversa.
I termini zingaro o zigano provengono dal greco medievale atsínganoi, 'intoccabili', un vocabolo utilizzato con un’accezione negativa e dispregiativa. Da dove deriva questa connotazione?
Il termine atsinganos deriva dal nome di una setta eretica – riconducile al manicheismo, una dottrina religiosa elaborata nel III sec. dal profeta persiano Mani, che predicava un'elaborata cosmologia dualistica che descriveva il contrasto perpetuo tra il Bene e il Male – che rifiutava il contatto fisico con le popolazioni circostanti, praticava la magia, conduceva una vita itinerante, rispettava la festività del sabato e non praticava la circoncisione. Da qui la connotazione dispregiativa dell’eteronimo zingaro che era sinonimo di ‘intoccabile’, ovvero asociale, termine ripreso anche dai nazisti per definire Rom e Sinti.
LA NOSTRA STRADA
Mio cugino mi diceva
che la vita è un tormento,
ma che bisogna andare avanti
e non fermarsi mai.
Colpe di qua!
Colpe di là!
Ovunque si vada troviamo ostilità.
Ma non credo che il Cittadino
sia il simbolo dell’onestà.
Forse odio e razzismo,
solo Dio lo sa.
Ma noi proseguiamo la nostra strada
- méngro dróm –
perché noi siamo zingari
e viviamo in libertà.
Luigi Cirelli
Tra le vostre ‘colpe’, ai primi posti spiccano l’elemosina e il furto. Perché si fatica a comprendere che la mendicità e il furto non sono espressioni culturali, ma strategie di ‘’sopravvivenza’’ in ambiti sociali di esclusione? Credi che questa tendenza ad ostinarsi a voler vedere i Rom come ladri/zingari sia una giustificazione per non impegnarsi mentalmente e umanamente a conoscere una realtà, che proprio in quanto tale, esiste?
I Rom non sono difesi da nessuno, se non da sé stessi. La discriminazione crea un cameratismo molto forte. Per autoproteggersi, le comunità si autoghettizzano, purtroppo. L’inevitabile conseguenza è la mancanza di una comunicazione con l’esterno, tale da riuscire a smentire o ad opporsi ai soliti luoghi comuni e, se questo accade, avviene da parte di singoli o di piccoli gruppi. Non ci sono quindi né interlocuzione, né contradditorio. Ad oggi non ci sono rappresentanti politici ad alto livello che possano portare le istanze di questa grande cultura. Anche quando si parla di Rom in televisione, gli inviti vengono rivolti a soggetti dei campi nomadi che magari faticano anche a parlare un italiano corretto. Non chiameranno di certo una persona che spiega bene la realtà delle cose in maniera decisa, precisa e ‘scientifica’. Io vado spesso in televisione, ma quasi mai mi capita di affrontare persone che vogliono realmente capire. Questo è il problema. In Italia la comunità Rom rappresenta lo 0,2% della popolazione e quindi la forza per dare un contradditorio è molto limitata, ma quello che conta non è la volontà di capire, ma di fare audience. L’hate speech contro i Rom è molto forte e questo trova terreno fertile per la spettacolarizzazione perché l’antiziganismo, oltre ad esse presente, è accettato.
La realtà rom viene spesso associata al termine ‘’nomade’’. Il nomadismo rappresenta uno degli aspetti più controversi e spesso fraintesi della cultura romanì. Il nomadismo, tuttavia, non è un tratto culturale. Perché ancora oggi esiste l’associazione Rom=nomade?
Non siamo nomadi per cultura. Il nomadismo non è un nostro tratto culturale in primis perchè un nomade si sposta per cultura, un Rom si sposta per lavoro, gli esempi più noti sono i circensi, i musicisti e i giostrai. I Rom, dopo il loro arrivo in Italia tra il XIV e il XV sec., quando hanno trovato la possibilità, si sono sempre sedentarizzati. Quando non hanno trovato occasioni per condurre una vita ‘normale’ o per motivi lavorativi, hanno emigrato. Non è strano trovare ancora oggi cartelli degli anni ’70 che dicono ‘è vietato ai nomadi e agli zingari’. Questo per far capire che il processo di sedentarizzazione dei Rom è stato lungo e faticoso. Ad esempio, mio nonno ha avuto molti problemi a comprare casa, nonostante abbia avuto un buon successo economico con le sue aziende di vendita di bestiame e di automobili. Io faccio il musicista, non sono un nomade, mi sposto per gli spettacoli e poi torno a casa. Alcuni hanno case mobili per una questione di comodità poiché, restando fuori 300 giorni l’anno, non ha senso investire soldi in una casa, ma in un caravan dotato di tutti i confort che arriva a costare anche più di una casa tradizionale. Quando si parla di campi nomadi si parla di associazioni di Kaggé - non Rom - che intorno agli anni ‘70 hanno influenzato l’opinione pubblica e la politica per la creazione di campi di nomadi. Anche la scuola ha subito un destino comune perché sono state create le ‘Lacio drom’, letteralmente Buona Strada, ovvero delle classi ghetto per Rom e Sinti in cui non si insegnava praticamente nulla. Mio padre e mia zia hanno frequentato una di queste classi, con la differenza che mia zia non è riuscita ad arrivare alla quinta elementare, mentre mio padre, grazie ad una professoressa che ha intuito il suo potenziale, è stato educato privatamente. Oggi ha due lauree, un diploma di conservatorio, insegna a 200 studenti universitari e scrive tantissimi libri, grazie a quella possibilità che gli fu concessa. Quanti altri professori, politici o scrittori avremmo oggi se non fossero esistite le classi ghetto? Di nomadismo si parla per i campi nomadi. Quelli che oggi vogliono stare nei campi nomadi non ci vanno per cultura, ci vanno chi per comodità, chi per disperazione. Quelle persone non possono parlare per la cultura romanés, ma solo per il loro piccolo gruppo. ‘’Ma loro ci vogliono stare’’... Tanti anni fa un mio carissimo amico che riuscì ad uscire dei campi nomadi, mi fece un esempio che mi toccò profondamente. Mi disse: ‘’se tu prendi un leone e lo allevi in una gabbia, quella per lui sarà la sua casa. Non conoscerà mai la savana. E se tu lo porterai via dalla gabbia per lasciarlo nella savana, lui morirà di fame perché non sa cacciare, cioè vivere’’. Un campo nomadi non è nient’altro che un recinto con al suo interno le roulotte e i militari all’ingresso a fare la guardia.
Nel video è presente l’omaggio al prof. Spinelli di Moni Ovadia
È interessante notare che questa, seppur erronea, corrispondenza tra nomadismo e romanipè ha da sempre esercitato un fascino sui gagè. Se però indirizziamo la nostra attenzione al ruolo svolto dalle popolazioni romanés nell’ambito culturale, ci troviamo dinnanzi ad un mondo sconosciuto. Vivi in una famiglia di artisti e sei tu stesso un talentuoso violinista. Possiamo sfatare il mito che i Rom siano incapaci di generare forme di espressione artistica e letteraria?
Il Pew Research Center di Washington ha condotto degli studi in sette paesi europei in cui veniva chiesto che tipo di sentimento provessero le persone nei confronti delle comunità romanés e che cosa conoscessero della loro cultura. Non solo il sentimento era nell'87% dei casi negativo, ma l’88% degli intervistati rispose che non sapeva dell’esistenza di una cultura romanés. Perché allora molti artisti nel corso della storia si sono ispirati ai Rom? Perché l’elemento bohémien nell’arte, così come quello della libertà, è eccezionale. Tuttavia, questo sentimento di libertà estrema non rappresenta nessun Rom. Noi siamo liberi, ma questo non significa che siamo fuori dalla società e che non abbiamo regole, anzi, abbiamo leggi molto ferree. Per noi l’arte è un elemento di sfogo e di unione. L’arte è stata anche una delle poche cose che non ci hanno potuto togliere durante i periodi più bui della nostra storia. Addirittura, a Birkenau-Auschwitz nel settore b2, noto come Zigeunerlager, il lager destinato alle famiglie Rom, venivano lasciati alle famiglie - che non venivano separate come nel caso degli ebrei - gli strumenti musicali perché i nazisti volevano studiare l’elemento zingaro. Togliere l’arte e la cultura ai Rom è molto difficile. I nazisti ci provarono il 16 maggio del 1944, ma i Rom si ribellarono con mazze e pietre. Purtroppo questa rivolta, a causa della mancanza di cibo e quindi di energia prolungata, fu repressa nel sangue il 2 agosto dello stesso anno, data in cui noi oggi ricordiamo il Samudaripen.
NON CREDERE
Non credere
che sono cattivo
e in verità
ti do il mio cuore.
Gagi, dammi la mano,
vieni con me
non temere la mia porta è aperta.
Ed io penso di tutti bene.
Aiutiamoci l’un l’altro
Viviamo come fratelli in questo mondo.
Rasim Sejdic
Credi che da quella porta lasciata aperta entrerà qualcuno? E se entrerà, sarà in grado non solo di vedere, ma di guardare?
Credo che le porte vadano aperte, anche nella comunità stessa. Io faccio un mestiere molto particolare e ho aperto la mia porta al mondo per far entrare e uscire la nostra cultura. Ma in quanti sono disposti a farlo? Ci deve essere una volontà di condividere, come una volontà per imparare. Condividere e imparare sono quasi la medesima cosa. Volere è l’elemento principale. Io voglio condividere, voglio aprire le mie porte ed entrare in quelle degli altri. Perché alcuni lo fanno e altri no? Ci sono due modi di approcciarsi alla discriminazione: il primo è combattere, il secondo è nascondersi. Combattere vuol dire affrontare, spiegare e farsi spiegare. Nascondersi vuol dire chiudersi e non sentire più nulla. Ambedue gli approcci sono da accettare perché non si può né giudicare chi non vuole più lottare dopo una vita di soprusi e di sofferenze, né chi vuole smettere di farlo. Tutto sta nella volontà che dipende da persona a persona e che vale per tutte le culture.
Il viaggio, ovvero l’esercizio di libertà di pensiero nel territorio del rispetto, può essere una lente che consente di guardare, anziché di vedere?
Il viaggio è ciò che, tramite la comparazione con la tua vita, ti offre la possibilità di vedere le differenze e le similitudini, e di capire che queste ultime sono molte di più rispetto le prime. Questa è la reale funzione del viaggio. Quando viaggio, vedo nelle persone gli stessi sentimenti, le stesse emozioni, gli stessi bisogni umani e sociali. Il colore della pelle viene dopo l’essere umano. Solo che il colore della pelle si vede prima e subentra la facilità di giudizio. Noi tutti siamo abituati a paragonare gli altri solamente a noi stessi. Troveremo sempre lo 'sbagliato' negli altri se li paragoniamo a noi stessi perché nessuno è come noi. Tutto dipende dalla volontà di voler vedere la bellezza delle differenze. È in quel contesto che ci si innamora delle altre culture e anche delle altre persone. La bellezza è nella sfumatura della diversità e ogni diversità è una ricchezza.
Buona fortuna anche a te Gennaro, che questo cammino ti porti sempre più lontano. Per chi volesse approfondire consiglio la lettura dei libri Rom, questi sconosciuti - Rom, genti libere - Una comunità da conoscere di Santino Spinelli.
Quanto a me, la volontà di cui parlava Gennaro, non si è esaurita, anzi, è sempre attiva. Nella prossima intervista scopriremo il valore del teatro come strumento di integrazione culturale insieme a Samuel Hili, attore, regista e drammaturgo ivoriano.
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