27 settembre 2020. Una data che a noi non ricorda nulla, se non il raddoppio di stipendio di Tridico, Presidente dell'Inps, e lo scandalo delle tasse non pagate da Trump. Ma non molto lontano da noi, nel cuore del Caucaso meridionale, stava ricominciando a sanguinare una cicatrice mai rimarginata. Una ferita ancora aperta chiamata Nagorno Karabakh.
Il tramonto si avvicina. La valle sta vivendo un silenzio innocente e solo le ferite del suolo oltraggiato alludono a un luogo in cui è in corso una guerra.
In una trincea, un giovane soldato scrive malinconicamente una lettera, abbandonandosi ai ricordi della sua casa paterna negli altopiani fertili dell'Armenia.
''Non piangere cara madre. Aspettami, tornerò. Ti amo teneramente. Mi manchi mamma. Ricordo le tue parole 'ama gli altopiani armeni'. Ricordo le tue lacrime quando hai parlato del nostro genocidio. Ricordo la mia casa paterna, i nostri alberi secolari nel cortile. Ricordo il mormorio del torrente quando giocavo durante l’infanzia''.
Poi, i comandi impliciti vengono dati attraverso un rombo di tuono e dal gemito del suolo.
Il fucile in mano, con la lettera aperta nascosta vicino al petto, il giovane soldato si lancia in avanti stringendo i denti. Ha solo una breve distanza per stabilire la linea di contatto dove il nemico sta entrando negli altopiani armeni. Ma ora sono brevi quei passi pacifici rispetto agli infiniti passi necessari per difendere l'esistenza armena.
Appena si pensa che l'avanzata del nemico sia stata fermata, viene falciato da colpi di arma da fuoco.
Nelle sue mani stringe una lettera aperta, bucata, caduta fissando il cielo azzurro.
Guarda il cielo azzurro abbandonandosi ai ricordi della sua casa paterna e del pioppo invecchiato sotto il quale sua madre attende la lettera.
Il tramonto si avvicina. La valle sta vivendo un silenzio innocente.
Un figlio degli altopiani armeni giace gravemente ferito in attesa di impedire la morte, cantando la canzone degli altopiani armeni:
''Se solo potessi volare via a casa, dove mia madre è sveglia''.
Questa poesia cantata da un giovane soldato ci riporta in un paese, l’Armenia, che ha da sempre dovuto lottare con vari nemici per il riconoscimento della sua esistenza e dei suoi confini. Analizzando la sola etimologia del nome Nagorno Karabakh, si riescono ad intuire la complessità della situazione nella regione e i principali protagonisti: Արցախ Artsakh in lingua armena antica, Dağlıq Qarabağ in azero, per gli altri Nagorno, dal russo 'montagna', e Karabakh da kara 'nero' in turco e bagh 'giardino' in persiano. Il Nagorno Karabakh è un paese che non esiste, ma la cui popolazione - meno di 150.000 individui di cui il 99% di etnia armena e il restante 1% diviso tra assiri, greci e curdi - si dibatte tra la guerra e la pace da trent’anni. Il conflitto ha origini antiche. Bisogna tornare indietro al 1923, anno in cui Stalin, creando l’Oblast del Nagorno Karabakh, assegnò il cristiano e armeno Artsakh all’Azerbaigian musulmano. Con la dissoluzione dell'Unione Sovietica alla fine degli anni ‘80, gli armeni chiesero che il Nagorno Karabakh fosse trasferito dall'Azerbaijan sovietico all'Armenia sovietica. Le tensioni etniche accrebbero sempre di più, fino a sfociare in un sanguinoso conflitto civile che lasciò sul campo tra i 20 e i 30 mila di morti, oltre a centinaia di migliaia di profughi da entrambe le parti. Nel 1991 la regione si proclamò unilateralmente indipendente, sotto il nome di Repubblica dell’Artsakh, mai riconosciuta a livello internazionale. Dopo sei anni di violenti scontri, si arrivò ad una tregua apparente, con un cessate il fuoco firmato nel 1994 sotto l'egida del Gruppo di Minsk. Tuttavia, la fine delle operazioni militari non portò al disarmo. L’accordo fu spesso violato da entrambe le parti e i negoziati risultarono inutili, soprattutto a causa della cosiddetta politica del caviale messa in atto dagli azeri, ovvero una politica corruttiva che mira a bloccare ogni possibile soluzione diplomatica. Questa situazione di relativa stabilità, si è infranta lo scorso 27 settembre 2020, con l’invasione della parte meridionale del Nagorno Karabakh da parte dell’Azerbaijan.
Nel video, gli Armeni bruciano le proprie case per non lasciarle agli azeri.
Il primo di loro dice: ''Ho costruito questa casa da zero. Come posso lasciarla a chiunque?'' e l’altro: ''Se i miei figli non possono usare questa casa, nessuno può farlo.''
Gli appelli dell’ONU sono rimasti inascoltati e la Russia - che secondo fonti ufficiali avrebbe rifornito di armi entrambi i contendenti – è intervenuta il 10 novembre, schierando 1.960 peacekeeper con un mandato di 5 anni, lungo il corridoio di Lachin, la via che mette in comunicazione il Nagorno Karabakh con l’Armenia. Bottino finale dell’Azerbaijan: la costruzione di una strada che mette in comunicazione il territorio azero con l’enclave del Nakhchivan e la Turchia, notoriamente sostenitrice degli azeri. Se la notizia è stata accolta con gioia dagli azeri, facendo spopolare l’hashtag #Senza il Nagorno Karabakh l'Azerbaijan non può esistere, l’Armenia ha accusato il premier Pashinyan di tradimento. Come in una moderna Iliade, Armenia e Azerbaigian hanno concordato di scambiarsi i prigionieri e di restituire alla parte avversaria i corpi di coloro che sono morti nel conflitto - secondo stime non ufficiali 5.000 vittime totali, tra cui anche civili. Questa è la storia ufficiale, quella che un giorno verrà riportata con rigore nei libri e che sarà letta con freddezza e distacco.
5.000
5.000 vittime. Un dato, un calcolo. Ma i numeri, per loro stessa definizione, sono degli enti astratti senza volto. Oggi voglio dare un nome e un viso drammaticamente reale ad una di quelle 5.000 vittime. Lui si chiamava Mher Potoyan, aveva ventidue anni e come ogni ragazzo della sua età, voleva vivere con e per la sua passione, la musica. Mher, in quella guerra passata in terzo piano davanti alle prodezze di Trump o all’aggiornamento dei dati Covid, è morto. Ho scritto a Narek Potoyan, suo fratello, che con grande forza e gentilezza ha accettato di parlarmi di Mher. Questa è la sua storia.
Narek, chi era Mher?
Mher, mio fratello, è nato il 30 gennaio 1998 nel villaggio di Kanakeravan nella regione di Kotayk - a circa 20 km a nord della capitale Yerevan. Era il quarto figlio della famiglia.
Come è nata la sua passione per la musica?
Fin da piccolo Mher ha mostrato un grande interesse per la musica. All’epoca tutti noi fratelli stavamo frequentando la scuola di musica di Kanakeravan, ognuno con uno strumento diverso. Un giorno Mher vide alla TV il kamancheh. Ne restò stregato. Disse che voleva imparare anche lui a suonarlo. Noi gli consigliammo di scegliere un altro strumento, ma quella fu la sua scelta definitiva e irreversibile. Per noi la musica era, ed è ancora, una componente fissa della nostra casa. Mher iniziò insieme a noi a frequentare lezioni di musica tradizionale. Con il tempo si appassionò sempre di più all’arte musicale popolare e si dedicò completamente allo studio del kamancheh per impararne tutti i segreti.
Quella passione è cresciuta insieme a lui e nel tempo è diventato anche il suo mestiere…
Sì, a circa 10-12 anni Mher iniziò a frequentare diverse scuole di musica nella capitale. Seguì i corsi della scuola di arte di Yerevan intitolata a Kristapor Kushnaryan e diretta da Edgar Gyanjumyan. A 13 anni prese parte al Gyumri Revival International Festival, aggiudicandosi il secondo posto nella categoria dei suonatori di kamancheh. In seguito continuò la sua formazione presso la scuola di musica dedicata a Jivani e il Conservatorio statale di Yerevan dedicato a Komitas nel dipartimento di musica popolare e strumenti musicali tradizionali. Mentre studiava, suonava nell'ensemble Naregatsi in Art Union.
Nonostante la giovane età, Mher era già un professionista riconosciuto e stimato. Si è esibito anche fuori dai confini armeni?
Insieme al suo ensemble Naregatsi, Mher ha preso parte a numerosi concerti in Italia, Grecia, Spagna e Francia, portando in Europa l’arte e la musica armena. In Italia si è esibito nel 2018 in occasione della commemorazione del Genocidio – il 24 aprile è la data in cui si ricorda il Medz Yeghern, il Grande Male – a Tricase (Lecce), Milano e Roma. Inoltre, si è esibito in Svizzera e in Turchia per la comunità armena di Istanbul. Prima di essere arruolato per il servizio militare, ha suonato anche in Russia.
Dopo queste esibizioni, soddisfazioni e vittorie, è arrivata la chiamata da parte dell’esercito armeno…
Era il 2019 e Mher fu chiamato per il servizio militare di leva obbligatorio. Quando fu arruolato, portò con sé il suo kamancheh. Durante quei duri mesi, suonava il suo strumento insieme ad altri musicisti negli scantinati della loro unità militare e in trincea. Non ha mai abbandonato la musica. I suoi amici ci hanno raccontato che un giorno, tornando dalla linea di confine, non riportò con sé il suo kamancheh. La lontananza dalla musica lo rese profondamente triste. Così decise di prendere una pala militare e un ramoscello per continuare ad esercitarsi e a sognare di poter fare musica. Quando i suoi compagni gli chiesero cosa stesse facendo, lui rispose che si stava rendendo conto che la sua abilità manuale stava diminuendo. Era un’idea inaccettabile per lui. Poi il 27 ottobre del 2020 la guerra ha messo a tacere l'incomparabile voce del kamancheh di Mher.
Mher (a sinistra) con i suoi compagni
Ti faccio una domanda che non vuole sottintendere un giudizio, ma un tentativo di comprensione. Vale la pena morire per la propria patria?
Dai re armeni agli umili, ogni singolo uomo ha sempre protetto la patria. Per ogni armeno è una missione sacra, un onore, andare nell’esercito e proteggere la nostra terra. Anch’io durante tutta la durata del conflitto sono stato in prima linea con i miei compagni per proteggere i nostri confini.
Cos’hai pensato quando ti hanno detto che tuo fratello aveva perso la vita?
Ho saputo della morte di Mher mentre mi trovavo sul fronte. È stato un dolore che riesco difficilmente a spiegare a parole. Anche se so che mio fratello è morto, io lo aspetto comunque ogni giorno. Non auguro a nessuno di sentire il dolore che sto provando. Noi armeni combattiamo da secoli per proteggere la nostra fede, i nostri valori culturali, la nostra libertà. Ognuno di noi sa benissimo che può morire per questi valori. Mio fratello è morto per difenderli. Altri fratelli sono morti. Ognuno di loro, anche se non facevano parte delle nostre vite, erano nostri fratelli. Anch’io sono pronto a morire per la mia terra.
Per rendere omaggio a tuo fratello, hai creato una ONG. Quali sono i suoi obbiettivi?
La ONG culturale Mher Potoyan ha lo scopo di rivalutare e rendere nota la lunga e grande storia dell’Armenia, una storia che ha avuto inizio oltre 7.000 anni fa. Abbiamo un grande patrimonio culturale, musicale ed artistico. La nostra volontà è di organizzare eventi culturali che ci permettano di riscoprire tutti questi aspetti, oltre che di scoprire nuovi musicisti talentuosi.
Sulla pagina ufficiale della ONG potete ora trovare le coordinate bancarie per effettuare una donazione a favore di questi giovani artisti armeni.
Che ruolo ha la musica nella cultura armena? Che valore ha per te?
La cultura armena ha migliaia di anni di storia. La maggior parte di quella storia è la musica. Con il suo aiuto esprimiamo il nostro amore verso la nostra patria, i genitori, i membri della famiglia, la vita di tutti i giorni, l'essere armeni e l'essere cristiani. La musica e la cultura sono grandi parti di un paese. La storia di una nazione, le arti e ogni ramo della musica, possono essere tutti considerati il patrimonio di una nazione. Per me la vera ricchezza è essere cristiano e figlio di una terra che ha dato i natali a persone come Narekaci, Komitas, Makar Ekmalyan e tanti altri grandi personaggi di talento.
Mher suonava il kamancheh. Quali sono gli altri principali strumenti della tradizione musicale armena?
Ci sono una ventina di strumenti musicali sempre presenti nel repertorio della nostra musica. Tar, oud, qanun, qamani - conosciuto anche come il ‘’kamancheh del Mar Nero’’ - baglama, santoor, dhol, daf, kaval, tsiranapogh - duduk - shvi, pku, parkapzuk e zurna sono gli strumenti più comuni.
Azzardo una domanda, consapevole del fatto che il tuo lutto è recente, ma fiduciosa nella tua sensibilità e intelligenza di artista e di uomo. La musica potrebbe essere un mezzo per ricostruire il dialogo tra nemici? Credi che un giorno, seppur lontano, armeni e azeri potranno ritrovarsi a suonare insieme?
La cultura è un ponte di collegamento. La cultura è storia, è pace, è amore verso tutto. Sono sicuro che la gentilezza e la cultura sono le uniche cose che possono riunire insieme diverse nazioni su un unico palco. Attualmente sto creando una grande piattaforma, che spero, sarà in grado di far dialogare i nostri avversari attorno ad un'unica ideologia culturale che sarà anche un segno di pace. Dal mio punto di vista, l'amicizia tra i diversi paesi dovrebbe essere basata sulla cultura. Spero che questo mio progetto offrirà l'opportunità, ad entrambe le parti, di saperne di più sulla cultura e sulla storia, in un’ottica di amicizia e di scambio.
Sono persone come Narek e Mher Potoyan che rendono questo mondo speciale. Persone che nonostante la ferocia di una realtà a tratti incomprensibile, non smettono di credere nei propri ideali. Le parole di Narek sono un esempio di forza, di valore e di fede in idee grandi, ma possibili, se condivise e sostenute. ‘’Le cose per le quali siamo disposti a morire sono anche le cose per le quali viviamo: ciò che dà un senso alla vita, lo dà anche alla morte”, diceva Antoine de Saint-Exupéry. Per noi, nati in una terra dai confini sicuri, risulta difficile comprendere a livello razionale il motivo per cui un ragazzo giovane, talentuoso e pieno di vita abbia potuto incontrare la morte. Risulta difficile comprendere come si accetti di andare deliberatamente verso una fine nefasta. Difficile, ma non impossibile se armati non di giudizi, ma di rispetto. Questo è ciò che la cultura e il viaggio ci insegnano: calarsi nell’altro senza avere la presunzione di poter dire cosa è giusto e cosa è sbagliato. Prima di tutto serve l’umile voglia di sentire, di ascoltare e di riflettere. Volere è il segreto. La conferma ce la offre lo stesso Narek con la sua voglia di credere che la musica potrà tenere viva la memoria di suo fratello e rendere possibile un’ideale di pace che si eleva oltre il rancore. Sono stata onorata di poter entrare in punta di piedi nella storia di Mher, una storia che non è finita con la sua morte. Grazie al racconto di Narek quel 5.000, un numero senza volto, adesso ha un altro significato. Spero che anche per voi sia lo stesso.
Ringrazio anche il gentilissimo Karpis, primo contatto con l'Armenia e con Narek.
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