LA PSICOLOGIA UMANA TRA VIAGGIO, CULTURA E IDENTITÀ

«Lo scopo del viaggio è aggiungere ricordi di consapevolezza di noi stessi e

avere memorie di incontri significativi per la comprensione della realtà umana»

dott.ssa M.Cristina Lanzoni

Il primo incontro che faremo in questo viaggio verso e dentro l’umanità è con la psicologia. Un incontro fondamentale per comprendere come la nostra mente si pone dinnanzi alla paura, alla trasformazione e alla presa di coscienza che il viaggio comporta. Ho chiesto aiuto a Maria Cristina Lanzoni, psicologa, psicoterapeuta e grande appassionata di lettura. Prima di condividere con voi il risultato di queste riflessioni, vorrei sottoporvi il ‘’problema dei nove punti’’, un gioco che mi ha proposto la dott.ssa durante il nostro incontro. La missione: tracciare non più di quattro segmenti di linea per coprire tutti i 9 punti, senza mai staccare la penna dal foglio.

Ci siete riusciti? Io personalmente no. Se anche voi come me non siete stati in grado di risolvere il problema, tranquilli, era proprio questo il senso. Vi mostrerò la soluzione dopo la conversazione con la dott.ssa. Solo allora saremo in grado di risolvere il gioco e, quindi, di partire veramente per il nostro viaggio.

Dottoressa, cos’è la ‘’paura’’ in psicologia? Esiste un suo contrario?

La paura è un’emozione fondamentale: si attiva per permetterci di cogliere il pericolo e affrontarlo ed è, quindi, indispensabile alla sopravvivenza. Il pericolo, però, non sempre è reale e oggettivamente percepito: ognuno di noi, per la propria storia, per i vissuti di esperienze passate, per traumi subiti, elabora una personale antologia di paure vere o immaginate, esperite o temute ed elabora soggettive capacità di adattamento alle situazioni di difficoltà. Il viaggio è sicuramente una delle situazioni maggiormente vissute come ansiogene e correlate a diversi tipi di fobie. Non è un caso che in ambito clinico, molti pazienti facciano risalire il loro primo attacco di panico in concomitanza con l’uso di un mezzo di trasporto, anche per un breve percorso. L’allontanamento, così come la percezione di una certa autonomia o il confronto con ciò che è sconosciuto e ignoto, spesso attivano reazioni di difesa, atte a trattenere la persona nell’ambito protetto delle certezze quotidiane. Non riuscirei a identificare un termine preciso che possa corrispondere ad un contrario della paura. Ciò che posso dire è che di fronte alla paura si può soccombere o si può produrre una risposta efficace alla risoluzione della situazione pericolosa. A molti verrebbe spontaneo contrapporre alla paura il coraggio, ma personalmente non lo ritengo adeguato. Fronteggiare il pericolo richiede flessibilità, capacità di adattamento, curiosità, fiducia nella nostra capacità di razionalizzare e ragionare sulle difficoltà con tempi idonei. 

Ancor prima del dilagare della pandemia, la paura era uno stato emotivo riscontrabile quando si parlava di certi Paesi o di certe culture. Molto spesso questi timori non nascono da un’esperienza diretta, ma dalle parole dei media e dei social network. Come e quanto crede che la narrazione mediatica influisca sulla psicologia dell’individuo e, di conseguenza, della società?

Sono convinta che la narrazione mediatica possa addirittura plasmare la psicologia dell’individuo, in modo tanto più pervasivo quanto più precocemente vi si approccia senza strumenti critici per poterla gestire.  Non demonizzo i media in quanto strumenti. Ciò che ritengo pericoloso è la manipolazione delle informazioni a fini politici o economici e la veicolazione di messaggi diseducativi, discriminanti e mistificatori. Ovviamente le persone sono vittime della disinformazione quando non hanno accesso ad esperienze dirette o competenze culturali sufficienti a monitorare la veridicità di ciò che diventa il comune sentire. L’attenzione alle altre culture, la conoscenza di altri popoli e dei loro usi e costumi, le diverse religiosità e le diverse storie, sono sicuramente tra le vittime dell’odierna informazione. Non è solo un problema di molteplicità delle fonti pseudo-informative, che difficilmente possono essere controllate nella loro credibilità, ma credo ci sia proprio la volontà socio-politica ed economica attuale di spingere le persone a ridimensionare i confini, erigere muri, ancorarsi a pregiudizi in nome di un’identità meno aggregante e più discriminante. Fomentare paura e rabbia spinge a demonizzare l’altro, a renderlo un nemico e gettare le basi per la guerra psicologica che prelude a quella vera o già la giustifica. Se costruisci un muro, difficilmente potrai accorgerti che quelli che stanno dall’altra parte sono umani come te, con gli stessi corpi e gli stessi bisogni. Certa produzione mediatica, in questo momento, è prevalentemente pensata proprio per costruire muri ed ostacoli psicologici. Gli spazi identitari sono sempre più ristretti, è quasi una guerra fra pianerottoli. 

Esiste un filtro nella psicologia dell’individuo che permetta di discernere la verità dalla verosimiglianza o dalle fake news? O meglio, esiste ancora il dubbio, fattore fondamentale per la ricerca del sapere, o c’è la tendenza ad accontentarsi di risposte facili, sommarie e non verificate?

Per necessità di adattamento l’uomo tende a riproporre dei modelli di comportamento elaborati efficacemente grazie a precedenti esperienze gratificanti e idonee in un determinato tempo o contesto, ma poi è riluttante a rimetterli in discussione nel momento in cui la realtà presenta nuove situazioni. Ciò che si è dimostrato utile in precedenza, può rivelarsi uno strumento non funzionale in una nuova esperienza. Da qui dovrebbe sorgere il dubbio. Credo che la risposta debba prendere atto della fragilità delle persone: tanto meno hanno accesso agli strumenti della conoscenza e della cultura, tanto più sono private delle abilità per elaborare nuove risposte, adatte alla realtà che cambia. La frustrazione genera reazioni emotive negative e porta, soprattutto, all’arroccamento difensivo su posizioni, idee e pregiudizi apparentemente confortanti perché conosciuti, ma tristemente limitanti e circoscritti. Il dubbio appartiene al pensiero astratto e all’intelligenza ipotetico-deduttiva. Molte persone non accedono a questo livello di astrazione e rimangono su un piano concreto che può accettare solo soluzioni semplici. Di questo ovviamente si approfittano coloro che propongono messaggi elementari, meglio semplici slogan, che veicolano concetti retorici e domande che non comportano la fatica di cercare risposte complesse e soprattutto contenuti che risultino essere confermanti, confortanti per la bassa autostima e che rispondano al desiderio di delegare ad altri il ‘sacrificio’ del ragionamento. 

Il flusso di notizie a cui siamo incessantemente esposti provoca un fenomeno di spaesamento. Si sente sempre più frequentemente “non sappiamo più a chi credere”. Mi chiedo, chi si cela dietro quel “noi”? Con chi tendiamo ad identificarci? Quanto questi modelli e la necessità di credere in qualcosa o in qualcuno, influenzano la psicologia?

L’uomo interagisce fin dalla vita in utero con l’altro, dunque il noi sottende la vita relazionale nella quale cresciamo ed evolviamo. Il bisogno di appartenere a qualcuno o a qualcosa resta fondamentale per tutto il corso della vita. Ogni individuo ha la necessità di delimitare degli spazi reali e mentali entro i quali costruire delle certezze, condividere valori e principi, concordare delle regole di convivenza, depositare i propri bisogni e le proprie emozioni, apprendere i linguaggi che possano esprimere la sua identità. Il viaggio del noi inizia con il modello fondante della famiglia, contestualizzata in un preciso ambiente, per poi diramarsi in tante declinazioni sociali diverse. Dal modello iniziale abbiamo un imprinting fortissimo che molto ci guiderà quando ci troveremo a confrontarci con modelli sociali via via più diversificati. Quando la costruzione della nostra identità è stata carente di rinforzi positivi, ecco che ci rivolgiamo all’altro con una serie di bisogni, spesso nella speranza che risolva al posto nostro le nostre lacune e insoddisfazioni. Il problema che ci troviamo ad affrontare è che lo spazio nel quale crescono le nuove generazioni si è enormemente espanso con i nuovi mezzi di comunicazione. Per contro, la famiglia e la scuola hanno perso il loro primato educativo, generando spesso una solitudine culturale precoce e ad un bisogno affettivo prematuramente carente. Il termine spaesamento che hai utilizzato è metaforicamente il più corretto: a che paese apparteniamo? A quale Storia? A quali storie familiari? A quale cultura? Dunque, qual è la nostra identità? Ne consegue la ricerca di modelli, ma senza la competenza di base elaborata in un tempo e uno spazio definiti, hanno facile gioco gli imbonitori che vendono modelli precostituiti, servendosi della rimozione del ricordo familiare e della memoria storica. Eliminando il tempo dell’ereditarietà culturale, si vive in un qui ed ora antistorico, senza regole identitarie rassicuranti e dove è facile perdere il contenimento etico e morale tramandato soprattutto dalle tragiche esperienze generazionali. 

La ricerca di un modello da imitare porta ai temi della diversità e al concetto di identità. Il diverso rappresenta una risorsa per la costruzione dell’identità individuale e sociale o è una sorgente di paura?

In psicologia, l’identità è il senso del proprio essere, continuo attraverso il tempo e distinto, come entità, da tutte le altre. Il diverso è tutto ciò che sta al di fuori della nostra esperienza, vale a dire esperienze che non abbiamo ancora vissuto. Il diverso è la vita che ci circonda, ma anche le nostre parti nascoste alla consapevolezza. Tutto ciò che contamina il nostro spazio vitale ci cambia e ci permette di evolvere. La diversità può essere vissuta con diffidenza o paura, ma nel momento in cui riusciamo ad interiorizzarla, si disvela poi come ricchezza di parametri nuovi e più dettagliati per comprendere noi stessi, il mondo che ci circonda e il ruolo che in esso vogliamo avere. I nuovi dati esperienziali, sia quelli piacevoli che quelli dolorosi, diventano memoria e si integrano nelle mappe mentali che ci guidano nel nostro percorso evolutivo. L’incontro con il diverso non toglie mai nulla, semmai aggiunge. 

Che ruolo gioca la cultura in questa presa di coscienza? Il suo influsso è ancora riscontrabile o sta soccombendo in quest’epoca di influenzatori e influenzabili?

La cultura è fondamentale e a questo proposito condivido con te un ricordo. La mia insegnante di lettere alle scuole medie, la prof.ssa Luciana Campi, iniziò la sua prima lezione in classe scrivendo sulla lavagna questa indimenticabile frase: “chi nella vita possiederà duecento parole, sarà sempre sottomesso a chi ne possiederà duemila”. Un gruppo sociale trasferisce cultura alle generazioni successive con il linguaggio, le credenze, le idee, i gusti estetici, le conoscenze e le capacità acquisite. Questo insieme di valori si concretizzano in modelli culturali vissuti come esempi a cui attingere e vette a cui arrivare. Questo percorso si definisce in psicologia come inculturazione, interiorizzazione del sapere. Questo bagaglio iniziale deve poi flessibilmente accogliere le nuove esperienze e conoscenze di cui si arricchisce la nostra personale vita. In questo senso, la curiosa ricerca di incontro con l’altro e con il diverso assume fondamentale importanza: la stessa realtà può essere osservata da diversi punti di vista che possono confermare o rimettere in discussione le nostre convinzioni. Per rispondere alla seconda parte della sua domanda, credo che due esempi possano rendere l’idea di come la valenza della cultura si stia declinando nella società italiana contemporanea. Pediatri, pedagogisti, tecnici scolastici, psicologi e neuropsichiatri da tempo ravvisano un aumento di analfabetismo di ritorno e analfabetismo funzionale. L’emergenza sembra quasi paradossale vivendo in un momento storico di così enorme diffusione di informazioni, di stimoli, di libero accesso a luoghi e mezzi di apprendimento, dove la scuola è in teoria accessibile a tutti. Eppure è oggettivamente rilevabile un calo culturale tale da escludere un numero sempre maggiore di persone dalla comprensione di informazioni base per svolgere compiti e risolvere problemi di ordine quotidiano. Il secondo aspetto che porto ad esempio è il contemporaneo criterio di scelta dei modelli. I modelli più in voga ora sono artificialmente costruiti per compiacere e gratificare la nostra ignoranza, intesa nella sua accezione originale di non conoscenza, la nostra frustrazione e la nostra rabbia. Da dove deriva questa rabbia? Dall’inconsapevole limitatezza culturale e da quell’analfabetismo funzionale di cui parlavamo prima. Quando non hai le parole per formulare i pensieri e tradurli in frasi, il senso di impotenza che ne deriva risulta frustrante e ansiogeno, ma anziché prendere atto di ciò di cui manchiamo e colmare le nostre lacune, preferiamo delegare a chi, con maggior efficacia, quindi in modo didascalico e superficiale, sembra essere più comprensibile. 

Ritiene che i ritmi frenetici che ci vengono imposti, rischino di minare il naturale bisogno dell’individuo di avere un tempo per ciò che non ha scopi utilitaristici? Esiste ancora l’esigenza di spiritualità?

La domanda si ricollega perfettamente a ciò di cui parlavamo nella risposta precedente. Il tenore di vita a cui siamo abituati nel mondo occidentale e i modelli consumistici che siamo stati indotti a imitare, ovviamente richiedono una disponibilità economica sempre maggiore, per cui i tempi lavorativi per guadagnare quanto necessario, non solo sono aumentati, ma vedono impegnati sempre più spesso tutti gli adulti della famiglia. Ne consegue che anche i figli, fin da piccoli, conducono una vita quotidiana già piena di impegni, ma spesso vuota di relazioni significative e gratificanti. Questo prevaricare del tempo del fare a scapito di quello del pensare è oggettivo. Ma è nel tempo del pensare che abitano la noia, durante la quale conosciamo il vuoto e il desiderio di riempirlo, il bisogno, inteso come percezione dei propri limiti e motore delle motivazioni che ci spingono a superarli, la fantasia, che elabora nuove soluzioni creative, comprese quelle artistiche, il gioco, che risveglia la nostra parte bambina più spontanea, la curiosità, che ci spinge a conoscere cose nuove, prenderci il tempo per coltivare interessi, intraprendere esperienze diverse. Tutto questo ha bisogno di tempo, ma anche di uno spazio adeguato, lo spazio dell’emozionalità e anche della bellezza che ci rende migliori. Tempi e spazi adeguati stanno alla base della salute psichica: più li sacrifichiamo, più logoriamo il nostro equilibrio psico-fisico ed esterneremo i sintomi del disagio. Di questo contesto ha bisogno anche la spiritualità: se tutto è ridotto al materialismo o peggio al consumismo, non ci può essere spazio per i fondamenti del pensiero che indaga sui grandi temi esistenziali o spirituali. 

Crede che il viaggio, inteso come esplorazione non solo di un luogo, ma come scoperta o riscoperta di un insieme di patrimoni umani, possa essere un buon mezzo per costruire e coltivare il concetto del Sé come unità fondante di un grande insieme chiamato Umanità?

Il viaggio è uno strumento principe della conoscenza. Nel mio ambito professionale, quello psicoterapico, spesso si usano i termini viaggio e percorso per indagare sulla coscienza del Sé e dell’Altro da Sé. Il viaggio fisico è un’esperienza ancor più incisiva in quanto diretta, immediata, in un territorio che non è il nostro, al cospetto di persone vere con le quali instaurare una relazione dialogica verbale e non verbale più spontanea. Se, come abbiamo appena analizzato, l’apprendimento non può prescindere dalla relazione, è usando concretamente le nostre competenze che verifichiamo i nostri confini mentali e ci disponiamo a confrontarli con gli altri. Credo che il viaggio reale sia emozionalmente più forte di qualsiasi altra modalità conoscitiva, perché l’essere fisicamente in un territorio coinvolge tutti i nostri sensi contemporaneamente: odori, colori, temperature, esperienze tattili, suoni, che nemmeno la miglior opera d’arte può veicolare tutti insieme. Scriveva Italo Calvino: “Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda”. Credo che questa frase ben sintetizzi la differenza tra l’essere viaggiatori ed essere turisti. Da un viaggio possiamo portare a casa sette o settantasette fotografie da mostrare agli amici, per dimostrare una presenza che è passata incurante della complessità, interessata solo ad uno sguardo fugace ma non partecipe. Diversamente il viaggiatore che parte con una domanda, relativa a sé stesso o ad altri, poco importa, è già predisposto a dare un senso al percorso che sta per intraprendere. Lo scopo del viaggio è aggiungere ricordi di consapevolezza di noi stessi e avere memorie di incontri significativi per la comprensione della realtà umana. Termino col dire che i viaggi, di qualsiasi tipo essi siano o quanto fisicamente distanti ci porteranno, ci ricondurranno a noi stessi e avranno avuto un senso solo se le esperienze che ci hanno offerto hanno contribuito ad arricchirci e a slegarci da qualche vincolo d’ignoranza.

Eccoci alla soluzione del gioco del 9:

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Anch’io in un primo momento ero perplessa. La consegna diceva di tracciare quattro segmenti per coprire i nove punti…non diceva di restare all’interno del confine apparente, ma inesistente, dei punti stessi. Questa era la credenza autoindotta che ci ha impedito di risolvere il problema. Proprio come in questo gioco, anche nella vita bisogna uscire propri dai confini. Ora, grazie al prezioso contributo della dott.ssa Lanzoni e all’esempio di questo problema, siamo pronti per tracciare quella linea fuori dal finto schema. La prossima intervista vede protagonista l'avv. Nanni Rossi, presidente dell'Associazione Culturale Postumia.

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