La penisola balcanica, crocevia tra Oriente e Occidente, è stata il luogo in cui molti popoli di differenti etnie si sono incontrati e, talvolta, mescolati. Molti di loro hanno conservato fino ad oggi le tracce dell'eredità della tradizione balcanica. Uno di questi sono i Shop, un gruppo etnico che abitava la parte centrale della penisola balcanica, un tempo conosciuta con il nome di Shopluk o Shopsko. Con questo termine si intende l'area prevalentemente montuosa che si estende come un meridiano attraverso l'attuale confine serbo - bulgaro - macedone per un totale di oltre 12.000 km2, la maggior parte dei quali appartengono alla Bulgaria. Questo spazio etnografico non è omogeneo e possiede numerose specificità locali e peculiarità etnografiche derivate da una lunga storia di migrazioni e di mescolanze etniche. I frequenti cambiamenti dei confini di stato, le collisioni di interessi nazionali e una storia tumultuosa, hanno ostacolato la ricerca etnografica e portato a disaccordi tra gli studiosi sulle caratteristiche di base di Shopluk. Le maggiori differenze su questo argomento sono state espresse nelle posizioni delle etnologie e delle etnografie bulgare e serbe, dove il "diritto di possesso esclusivo nazionale" aveva una forte influenza. Riguardo l’origine dell’etnia Shop, gli studiosi serbi e bulgari hanno rivendicato l’appartenenza alle rispettive nazioni, ma in un quadro così complesso dal punto di vista geopolitico risulta praticamente impossibile tracciare dei confini etnografici netti, soprattutto trattandosi della penisola balcanica, un’area da sempre interessata da numerose guerre oltre i confini statali, flussi migratori di massa, assimilazione e vari altri cambiamenti etnografici. Oltre a questi impedimenti nella definizione dell'etno-spazio, ci sono altre caratteristiche specifiche di Shopluk che si sono aggiunte a questa incertezza. Uno di questi è la mancanza di appartenenza alla comunità, cioè l'inesistenza della coscienza della propria identità che ha determinato un mimetismo etnico. Tuttavia, la maggior parte degli antropologi sostiene la tesi che questo gruppo etnico sia il prodotto della mescolanza delle tribù slave arrivate nei Balcani e dei resti degli abitanti nativi romanizzati. I Shopi mantennero la loro individualità romanica fino all'XI secolo e costituirono la principale massa etnica in questi territori, insieme alle tribù slave, nel XII secolo. Gli eventi storici successivi hanno impedito agli abitanti della regione di Shopluk di portare la loro individualità e autenticità etnica a un livello più elevato di integrazione sociale, come un popolo o una nazione. I Shopi rimasero ad esistere al livello di una comunità etnografica, che ha conservato alcuni degli elementi di identità originale, ma che manca della costante etnica di base per un livello più alto di raggruppamento. Sebbene i Shopi esistano ancora oggi, essi rappresentano una memoria rudimentale, molto più simili a popoli estinti, come ad esempio gli Illiri, i Traci o gli Azari, che ad un vero e proprio gruppo etnico ben definito. Dal trattato di pace di Vienna del 1815 sono stati disegnati, tra le altre cose, i confini di stato tra il Regno di Serbia e il Principato di Bulgaria. Con quell'atto, Shopluk fu separato in due parti disuguali, la maggior parte delle quali era inclusa nello stato bulgaro dell'epoca e una, molto minore, nel regno serbo. La popolazione di Shopluk si trovò quindi a dover accettare l'identità nazionale serba o bulgara ed iniziò un processo di assimilazione dei Shopi in serbi e bulgari, e successivamente in macedoni. Ecco perché Shopluk viene definita una regione culturale che supera la politicizzazione. Tenerne in vita il ricordo, è uno dei mezzi che permettono di apprezzare la ricchezza della diversità etnica della penisola balcanica e di contrastare una visione monocromatica che nei decenni scorsi ha dato luogo ad atti criminosi contro l’umanità.
Una leggenda bulgara narra che quando Dio creò il mondo, chiamo a sé tutte le genti e distribuì loro ogni cosa: le montagne agli austriaci, oceani e vittorie agli inglesi, pianure ai russi, vino ai francesi, la danza agli spagnoli e la musica agli italiani. I bulgari arrivarono ultimi, ma Dio li accolse comunque e, anziché punirli lasciandoli a mani vuote, donò loro un po' di tutte le arti e gli elementi che aveva regalato agli altri popoli. L’autore di questa leggenda, basata su stereotipi e creata per celebrare la Bulgaria come il paese in cui esiste un mix di tutti le componenti più caratterizzanti del resto d’Europa, ha dimenticato di menzionare il sorriso, un dono apparentemente ovvio, ma di cui si sente la mancanza. La capitale Sofia, nonostante un passato ricco e variegato, si presenta con un grigio alone di tristezza. Interrogandomi sull'indole del popolo bulgaro, mi sono imbattuta in una ricerca condotta dai report Sustainable Development Solutions Network delle Nazioni Unite e Global Happiness Council che afferma che la Bulgaria è il paese più triste d'Europa (ventottesimo posto su ventotto paesi). Addirittura si è classificata su scala mondiale al centesimo posto su 156, dietro a Nigeria e Somalia. Per stilare la classifica sono state prese in considerazione molte varianti come il reddito pro capite, il supporto sociale, l'aspettativa di vita, le condizioni di salute, la generosità, la percezione della corruzione e la libertà di fare scelte di vita. A far scendere il livello di felicità in Bulgaria è principalmente la mancanza di speranza per il presente e per il futuro. Questi fattori si percepiscono chiaramente quando si tenta di stabilire una comunicazione con la popolazione. La prima difficoltà che si incontra è la barriera linguistica: pochissime persone parlano inglese e difficilmente si incontra qualcuno disposto a utilizzare mezzi banali, come scrivere il prezzo invece di continuare a ripeterlo inutilmente in bulgaro, per farsi capire e fornire finalmente la soluzione ad un problema. Inoltre va ricordato che i gesti per dire sì e no, funzionano al contrario. Se a questo si aggiunge che l’espressività facciale è ridotta all’osso, diventa facilmente intuibile che le conversazioni abbiano una durata breve. Questa barriera linguistica ed empatica, può essere parzialmente superata, concentrandosi sulle attrazioni della città. All'interno del centro storico, si trovano la Cattedrale dedicata ad Aleksandr Nevskij, la Chiesa di San Giorgio, la Sinagoga, la Moschea Banya Bashi ed il mercato coperto Tsentralni Hali. Spostandosi verso la periferia, si giunge al Museo di Storia Nazionale. Il rigore sintetico dello stile dell’edificio si scontra con la ridondanza e la preziosità dei reperti, tra cui i tesori dell’Antica Tracia ed una collezione dedicata al folklore bulgaro. Qualificare Sofia come ‘’bella’’, inteso nella nostra concezione armoniosa del termine, risulta difficile. Trovandomi a scrivere in un sito di viaggi, forse dovrei utilizzare il ricco frasario di slogan del ‘’viaggio perfetto’’ o esaltare le doti comunicative, in questo caso latenti, della popolazione locale. Potrei dirvi che Sofia è la città perfetta per un viaggio perfetto. Potrei farlo, ma offrirei un quadro standardizzato e non autentico di una città che standard non è e, soprattutto, la priverei della sua personalità. Visitare Sofia, e in generale la Bulgaria, significa comprendere gradualmente e non senza sforzo, che dai tempi gloriosi dei Traci o di San Cirillo alla dimensione attuale, si sono susseguite una serie di vicissitudini politiche, sociali ed economiche che hanno portato a questa realtà difficile da delineare, ma interessante da ragionare. Non si deve partire per Sofia con l’obiettivo di vedere qualcosa, ma di sentire qualcosa. Un’atmosfera unica, difficilmente rintracciabile in altri luoghi, simile a quel no che in realtà vuol dire sì.
Rila è una delle tappe d'obbligo di un viaggio in Bulgaria. Proseguendo lungo strade tortuose, attraverso boschi e camping abbandonati dai tempi di Živkov, si raggiunge il Monastero di Rila, il più grande complesso religioso della Bulgaria, dichiarato Patrimonio Unesco nel 1983. La fondazione del maestoso edificio risale all’inizio del X secolo ad opera dei discepoli di San Ivan Rilski, monaco e anacoreta che viveva all'interno di una grotta a pochi chilometri dal monastero. Secondo le sue agiografie, alla morte dei suoi genitori, egli distribuì tutti i suoi averi tra i poveri e abbandonò il suo paese nativo vestito solo con una veste di pelle. Trascorse molti anni da eremita nei boschi della regione, meditando sulle parole del Signore, evitando ogni contatto con gli uomini e nutrendosi solo di erbe selvatiche. Dopo essere stato scacciato da una banda di briganti, decise di rifugiarsi in una grotta. La sua fama di uomo illuminato si diffuse tra pastori e contadini fino ad arrivare al re Pietro che decise di andarlo a trovare personalmente. San Ivan rifiutò l'incontro e da allora sempre più proseliti accorsero vicino alla grotta per studiare e diffondere la sua parola. Furono proprio un gruppo di questi discepoli ad iniziare la costruzione del monastero. Nel 1335 Stefan Dragolov, signore di Rila, apportò delle modifiche al complesso, inserendo la Chiesa e la torre Hrelyova, visibile ancora oggi. Durante il corso dei secoli il monastero fu ampliato, ricostruito e restaurato, ma non perse mai la sua sacralità, nemmeno davanti alla conquista ottomana. Il valore di questo luogo non sta solo nella bellezza della sua architettura (il monastero come lo si vede oggi fu ricostruito dopo un incendio nel 1833), ma nell'aver preservato la tradizione religiosa ortodossa durante il lungo dominio ottomano. Per più di cinque secoli paesi come la Bulgaria, la Serbia e la Romania, difesero la religione cristiana dall’avanzata islamica. Molti monumenti furono saccheggiati e distrutti dall’esercito ottomano, ma fortunatamente Rila fu risparmiata. L’impatto visivo del contrasto tra l’alternarsi geometrico dei marmi bianchi e neri, e le tinte accese delle 1.200 scene bibliche raffigurate sulle facciate interne ed esterne, è straordinario.