esfahan

LA LUNA E LA FINESTRA

Esfahan arrivò dopo Shiraz. Mi si presentò avvolta da una fitta nebbia notturna. A nulla erano valsi i tentativi del taxista di darmi il benvenuto. Il mio corpo era in viaggio verso una nuova destinazione, ma il mio spirito era trattenuto da un evanescente velo intessuto di umor nero. Spannai il vetro del finestrino e cercai la luce della Luna per trovare conforto. Tutto era buio. Silenzioso. Immobile. Arresami alla sua assenza, mi asciugai il palmo umido nel cappotto. Sentii la sagoma del mohr. Misi la mano in tasca e nei sfiorai i dettagli. Ripercorsi il sentiero che avevo seguito fino a quella notte. Erano trascorse solo poche ore, ma Shiraz mi sembrava tremendamente lontana. Il calore del sole, gli stretti vicoli, il profumo dell’ash-e bademjan, i riflessi degli specchi, il cinguettio degli uccelli nel bazar, l’acqua delle fontane, i giardini. Ogni cosa mi aveva suggerito la via da seguire. Eppure quella notte mi sentivo persa. Avevo sorseggiato un sapore che da tempo non gustavo. Un sapore di poesia, di sorrisi, di buoni pensieri. Ripensai al ragazzo tedesco che avevo incontrato nel santuario di Shāh Cerāgh. La sua espressione, vigile e desta, non aveva tradito alcuna emozione. Con voce lucida, aveva fatto domande riguardo le dimensioni e la datazione dell’edificio. Il suo fu un feroce tentativo di infrangere con prosastiche parole la poesia in cui eravamo immersi. Mentre la sua bocca si muoveva senza emettere suoni percepibili dalle mie orecchie, io ero rimasta seduta a cercare di riordinare i frammenti della mia anima riflessi negli specchi scomposti delle pareti. Quando ci salutammo, i suoi occhi fecero un sorriso di ironico compatimento, come quando si guarda un pazzo che rincorre un’ombra. Sicuramente, ovunque si trovasse quella notte, la sua mente era tranquilla e il suo cuore era salvo da ogni moto di palpitazione. Ero davvero pazza? O era lui ad esserlo? Chi avrebbe creduto o capito che esiste una lingua senza parole? L’impossibilità di rivelare questo concetto con parole comprensibili e adeguate, mi spinse a ridestare il mio cuore da quel dolce inebriamento con un freddo schiaffo. Lo feci tacere e mi concentrai su quello che avveniva intorno a me. Avevo davvero vissuto tutto quello o era stato solo un ingannevole miraggio? Forse ero davvero impazzita. Chiusi a chiave la porta della casa del mio spirito e la gettai nelle profondità del pozzo della paura. Abbassai il finestrino. Le insegne luminose dei market e l’intensificarsi del traffico mi fecero capire di essere giunta nel centro di Esfahan. L’aria della notte, mi spostò il velo. Il taxista mi guardò dallo specchietto retrovisore. Evitai il suo sguardo e distolsi il mio concentrandolo sulla mano che giocherellava con i grani del tasbih. Il taxi si infilò in una stretta strada a senso unico. Un gruppo di uomini vestiti di nero si addossarono alle mura per consentirci di passare. La porta di una casa era aperta. All’ingresso stavano ordinatamente riposte molte scarpe. Dall’interno si udivano sommesse preghiere. Un vassoio di datteri e una corona di fiori bianchi lasciavano intuire che quella abitazione era stata colpita da un lutto prematuro. Svoltammo in un’ampia via ignara del dolore che le stava vicino. Il taxista mi fece capire che eravamo arrivati. Mentre scaricava la valigia, mi guardai attorno per prendere confidenza col mio nuovo indirizzo. L’entrata dell’hotel si trovava tra un minimarket in cui un uomo stava guardando un canale di musica pop e un negozio di tappeti dove due anziani signori stavano giocando a takhte nard, il moderno backgammon. In fondo alla strada si intravedeva un lungo filare di alberi. Il vento portava una musica disturbata dal suono intermittente dei motori delle macchine. Dopo aver fatto il check-in, lascia la valigia alla reception ed uscii alla ricerca della sorgente di quelle note. Passai oltre il vicolo della veglia funebre e salii per una scalinata. La musica mi condusse in una piccola piazza dove un uomo stava suonando il tanbour. Il suo ritmo incalzante si sposava perfettamente con il mio inquieto stato d’animo. Mentre ascoltavo quelle note generatrici di domande, notai in un angolo buio una sala da tè. Mi avvicinai e vidi che poco distante dall’entrata c’era un ragazzo dai folti capelli ricci. Stava seduto a terra con le gambe incrociate. Il suo sguardo era assorto nell’infinità del cielo. Il suo corpo era immobile, eppure i suoi occhi parevano vagare. Forse anche lui stava cercando la Luna. Senza rendermene conto, mi ero abbassata all’altezza del suo viso ammaliatore. Spostò il suo sguardo dal cielo al mio. I suoi occhi mi dissero di guardare dalla serratura della sua anima. Vidi un deserto in una notte senza stelle. Si era perso lungo il sentiero, ma la speranza gli aveva detto di continuare a contemplare il cielo in attesa che la Luna gli calasse una scala. Sapeva che la Luna non gli doveva nulla, eppure il suo spirito continuava a danzare. Mentre guardavo la sua anima, sentii ancora quel sapore. Ebbi paura. Anche lui era matto. Entrai velocemente nel locale per sfuggire ai suoi occhi e bevetti un caffè turco bollente. Mi accorsi che tutti i clienti della sala sedevano soli e muti. Tutti stavamo ascoltando la stessa musica, eppure eravamo così distanti, così persi, così invisibili l’uno all’altro. Guardai il fondo del caffè per cercare un segno, ma non vidi nulla. Uscii dal locale e mi avviai verso la mia casa provvisoria. Entrata in stanza, mi tolsi il velo e mi diressi verso la finestra. Mi sedetti e guardai fuori. La nebbia si era diradata, ma della Luna nessuna traccia. Restai molto tempo seduta a terra, ma la Luna quella sera pareva non volersi mostrare. Avrei dovuto seguire l’esempio del tedesco: meno pensieri folli, più dati reali. Guardai nel fondo del pozzo e vidi la chiave. Spensi la luce e mi coricai esausta. Mentre ero fra il sonno e la veglia sentii dei passi. Vidi l’ombra del ragazzo dei capelli ricci risalire dal pozzo della paura. Si avvicinò alla finestra. La socchiuse. Poi sparì nella notte. La Luna era alta nel cielo. Il giorno seguente fui svegliata dai clacson delle auto. Guardai l’orologio. Era già trascorsa metà della mattinata. Mi alzai di scatto e mi preparai di corsa. Dopo aver lottato con il velo che sembrava essermi per la prima volta ostile, cercai sul fondo della valigia la cartina della città sulla quale avevo segnato l’itinerario da seguire. Quando ormai ero in procinto di lasciare la camera, una raffica di vento spostò la tenda. Mi avvicinai con cautela alla finestra e guardai fuori. Il cielo era avvolto da nubi grigie. Arretrai, presi le chiavi e uscii velocemente. Raggiunta la reception vidi uomo anziano con un grosso colbacco di pelo abbassato sul capo frapporsi tra me e l’uscita. Lo scansai con passo deciso, mentre stava ancora chiedendomi se avevo bisogno di aiuto. La lista delle cose da vedere era molto lunga. Dovevo rimediare al tempo perduto e non potevo abbandonarmi a nuove chiacchere. È sempre stato impensabile perdere anche solo un punto della lista delle cose da vedere. Perché avrei dovuto cambiare? Lo avevo già fatto a Shiraz. Avevo conversato a lungo sulle poesie di Hafez, ma il tempo che avevo impiegato parlandone, non mi aveva concesso di visitare la sua tomba. Se avessi mantenuto il nostro concetto di tempo, ora avrei una spunta in più sull’elenco e un turbamento in meno. Proprio come il tedesco. Mi concentrai per restare immune alla danza degli alberi di Chahar Bagh-e Abbasi Street e in pochi minuti mi trovai alla fine di Sepah Street. Con il respiro affannato entrai in Meidān Naqsh-e Jahān, una delle più grandi ed antiche piazze del mondo, ovvero il primo obiettivo della giornata. Mi sedetti sulla prima panchina libera ed estrassi dalla borsa la cartina per localizzare la mia posizione. Contai le cose che dovevo vedere e organizzai il tempo. Il primo punto era la Moschea dello Scià. Ripetei quello che avevo studiato prima di partire per l’Iran: ‘’La Moschea dello Scià fu costruita dall’architetto Shaik Bahai durante il periodo safavita (1611-1629), per ordine dello Scià Abbas I di Persia. L’edificio è uno degli esempi più straordinari di architettura persiana ed è un esempio eccellente dell’architettura islamica dell’Iran. Assieme all’adiacente piazza Naghsh-e Jahan fa parte della lista dei patrimoni mondiali dell’UNESCO. La porta misura 27 metri, i minareti sono alti 42 metri e l’intera costruzione misura 100×130 metri’’. Alzai lo sguardo per cercarla. Rimasi stupita. Non si vedeva nulla. Tutto era avvolto da una densa foschia che impediva di vedere i profili delle moschee e della piazza. Mentre abbassavo lo sguardo sulla cartina in cerca di conferme, vidi un’ombra correre vicino ai miei piedi. La seguii. Alzai gli occhi verso il cielo. Era un aquilone. A guidarlo era un ragazzino che correva felice. Mi passò vicino, rischiando di inciampare nei miei piedi e poi via, lo rilanciò nuovamente verso il cielo. Seguii il suo volo incerto, ma libero. Era bellissimo. In quel momento mi risvegliai. Cosa stavo facendo? Davvero Esfahan era solo un elenco di luoghi da visitare? Forse quell’aquilone valeva meno di un monumento? Perché mi stavo facendo la guerra? Di che cosa avevo paura? Forse nascondermi tra le lancette del tempo e tra gli spilli della rabbia avrebbe impedito a tutto quello che stavo incontrando di attraversarmi? Non ero forse qui per questo? Avevo permesso a questo ritmo di assorbirmi perché sicura che mi avrebbe fatto ricordare ciò che avevo dimenticato. Mentre seguivo il volo dell’aquilone, sentì su di me due occhi indagatori. Mi voltai e vidi un ragazzo che stava appoggiato alle mura della piazza. Sembrava che aspettasse il mio invito per avvicinarsi. Mi girai verso di lui e lo guardai. Colse il mio assenso. Con passo prudente, ma deciso, si avvicinò. Lo salutai. Invece di contraccambiare per poi passare alle canoniche presentazioni, mi fece una domanda che mi lasciò attonita. ’’Non hai paura?’’. Nel millesimo di secondo che la mia bocca impiegò per dare la risposta, fui invasa da mille interrogativi. Chi era quel ragazzo dallo sguardo irriverente che era entrato nei miei pensieri prima di ricevere il mio assenso? Chi era quel ragazzo dalla mente sagace capace di leggere il mio cuore? Un nemico o un alleato? Lo misi alla prova. ‘’No, non ho più paura’’. Rimasi in attesa. Aveva fiutato nei miei occhi la sfida, ma mi sorprese nuovamente. ‘’Bentornata a Esfahan’’. A quelle parole, seguì il lancio della cartina nell’immondizia. Bevemmo un caffè che non voleva essere finito. Parlammo tanto e di tutto. Mi raccontò di essere figlio di un mercante di tappeti, un uomo che, come recita il proverbio, ‘’con la sua lingua dolce e gentile, può trascinare un elefante per un capello’’. Mi raccontò che nonostante parlasse sei lingue, italiano incluso, aveva deciso di seguire le orme del padre continuando a vendere tappeti. Mi spiegò la differenza tra i disegni classici e nomadici. Ragionammo di politica, di economia, di oro nero. Mi chiese di parlargli di Venezia, di Firenze, di Roma. Giocammo con l’eco prodotto dagli intarsi a forma di strumenti musicali del Palazzo di Ali Qapu. Con orgoglio mi fece vedere la vista sulla piazza. Mi mostrò l’affresco di una donna velata e mi disse che prima della Rivoluzione il suo corpo era completamente nudo. Ricordammo la visita del presidente Rohani ai Musei Capitolini. Per scacciare l’imbarazzo, ci abbandonammo ad una fragorosa risata. Camminammo tanto senza rendercene conto. Arrivammo fino a Jolfa, il quartiere armeno. Ci intristimmo davanti alle testimonianze del Medz Yeghern, il genocidio armeno del 1915. Trovammo conforto negli affreschi delle cattedrali di Vank e di Betlemme. Mi raccontò come in Iran le minoranze religiose vengono rispettate perché presenti da sempre nell’arcobaleno culturale del Paese. Ci divertimmo a cercare nel Museo Armeno il più piccolo libro del mondo. Mi chiese di raccontargli la storia di Paolo e Francesca e contraccambiò narrandomi la tragedia di Layla e Majnun. Ci salutammo che ormai il sole aveva abbandonato il cielo. Ritornata in camera, mi avvicinai alla finestra. La luna splendeva in cielo e il ragazzo dai capelli ricci saltellava sulla metà invisibile del suo volto. Mi addormentai ripensando all’uomo anziano col grosso colbacco. Lo avrei cercato e trovato per offrigli un tè. Così feci e tornai sul sentiero.

Questo è quello che ho vissuto nei miei pochi, ma profondi giorni in terra d’Iran. Ora che sono qui, imprigionata al tempo del Covid, tutto risulta più difficile. Penso a come poter disegnare con le parole concetti difficili da catturare. Penso a come verranno comprese o rifiutate da chi le leggerà. Mi chiedo se ne valga la pena o meno di condividere queste voci che mi fanno visita. Penso che pensare può essere pericoloso. Fisso la tastiera per cercare una risposta tra le lettere, ma l’unica immagine che rivedo è la matita che trovai sullo scrittoio dell’hotel di Tabriz. Una coincidenza, una prassi usuale in un albergo a cinque stelle. O forse un segno da parte di una mano invisibile. Il viaggio in Iran è ormai finito da un pezzo e ogni spostamento è diventato un’utopia. Eppure quando viene la Luna risento quel ritmo straniero a cui non sono riuscita a dare un nome. Questo viaggio ha aperto molte vie per domande che mai avrei pensato di pormi. O forse per domande che ho finto di non farmi. L’Iran non è un paese per tutti. Eppure lo dovrebbe essere. Quel ritmo incalzante che arrivava dalle montagne di Tabriz mi ha gettato nel dubbio e io non riesco più a smettere di danzare. Ho visto la mia vita come un cerchio e non come una linea retta. Ho visto qualcuno e qualcosa di cui conosco il nome, ma a cui non riesco a darlo. E mentre ancora adesso lo chiamo in aiuto, mi rendo conto dell’importanza di questa esperienza. Un’esperienza complicata, ma che non posso ignorare. So che questo è solo l’inizio. Fingerò davanti agli sconosciuti di aver vissuto queste cose solo in sogno, ma nel frattempo tu, caro re, che le stai leggendo, avrai potuto riviverle con me.      © Riproduzione Riservata

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Esfahan è l'antica Aspadana (Ασπαδάνα) del trattato Geografia di Tolomeo, la cui origine sembra potersi connettere alla dinastia achemenide, ma che solo dal periodo sasanide (IV-V sec.) inizia a ricoprire un ruolo importante nella regione. Conquistata dai musulmani nel 644, restò nel dominio diretto dei califfi sino al X secolo. Fu poi abitata dai Samanidi, dai Gasnavidi e dai Selgiuchidi. Fiorì dal 1050 al 1722, sotto la dinastia Safavide, quando divenne la capitale della Persia per la seconda volta nella sua storia. Ancora oggi, la città conserva gran parte della sua gloria passata. È famosa per la sua architettura persiano-islamica, con molti viali, ponti coperti, palazzi, moschee e minareti. Ciò ha portato al proverbio persiano 'Esfahān nesf-e-jahān ast' (Isfahan è la metà del mondo). Piazza Naqsh-e Jahan, il cuore di Esfahan su cui si affacciano il Palazzo Ali Qapu e le grandi moschee, è una delle più grandi piazze del mondo. 

Grazie alla moltitudine di splendidi esempi dell'urbanesimo safavide, Isfahan è stata designata dall'UNESCO come sito del patrimonio mondiale. A causa della conquista afgana alla fine del XVIII secolo, alle successive guerre civili e allo spostamento della capitale a Teheran nel 1786, la città andò incontro ad un lento declino che però non le fece perdere il fascino che tuttora la contraddistingue. 

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