KANDOVAN

BUONANOTTE, CARO RE

Dal finestrino del taxi mi sto godendo la vista delle montagne di Tabriz. Il sole sta già calando e lascio che gli ultimi caldi raggi mi avvolgano in un piacevole tepore. L’autista sembra uscito da un film americano anni ’70: ha forti capelli grigi ingellati, porta dei grossi occhiali da sole fumé e indossa un attillato giubbotto di pelle marrone. Non parla inglese, ma la sua figura mi fa sentire sicura. Abbiamo da poco lasciato la periferia con le sue nubi nere di smog e i branchi di cani randagi. Ora l’aria è finalmente pulita. Le montagne sembrano spessi fogli di carta ripiegati su sé stessi da una mano invisibile. Qua e là si vedono piccoli gruppi di case contornati da pollai e fili di panni stesi. La macchina volta a destra ed entra in un villaggio. La modestia degli edifici e l’essenzialità della merce esposta nei mini market fa supporre che questa zona periferica sia molto più povera rispetto alla città. Le facciate sono incomplete. Molte abitazioni sono crollate e mostrano squarci in cui intravedere la struttura dei mattoni. A fare da contrasto, ci sono le insegne luminose dei negozi di vestiti da sposa in cui pomposi e poco raffinati abiti lasciano intendere l’ineluttabilità del matrimonio come destino a senso unico. Gruppi di donne in chador nero si alternano a coppie di anziani seduti a giocare a dama. Un mendicante sta cantando. I cani inseguono bambini che giocano con aquiloni improvvisati. L’autista rallenta per far passare piccole studentesse avvolte dalla testa ai piedi in candide divise bianche. Saltellano con i loro zainetti mezzi vuoti e ridono spensierate mentre corrono verso il fiume che divide a metà il paese. Ancora qualche chilometro e saremo a Kandovan, il villaggio conosciuto per essere la piccola Cappadocia dell’Iran. Sono ben consapevole che la realtà che tra poco mi si presenterà non sarà minimamente paragonabile alla maestosa terra delle fate, però sono qui e vale la pena approfittarne. Il taxista alza il finestrino. L’aria sta diventando fredda. La strada si fa più stretta e inizio ad intravedere la sagoma di due sbarre aperte lungo il percorso. Il taxista si ferma e saluta il guardiano colto mentre sta mangiando del pane vecchio. Apre la bocca piena di briciole e ci da l’ok, lasciandoci passare. Da dietro la curva ecco spuntare i tetti di Kandovan: un agglomerato di coni lavici prendono vita dalla madre roccia e si sorreggono l’uno con l’altro per non cadere a valle. Del fascino e dell’eleganza dei camini di fata di Göreme c’è ben poco, ma si capisce subito che qui è tutto molto più autentico. La macchina si ferma all’inizio del paese, davanti ad una fila di negozi. Il taxista si toglie per la prima volta gli occhiali da sole e mi fa capire che mi aspetterà qui. Scendo dall’auto e vengo investita dal gelo. Camminando come una geisha per non scivolare sul ghiaccio, cerco di raggiungere dei ciuffi d’erba ingialliti che circondano un palo della luce in legno. Mi appoggio per restare in equilibrio e mi guardo attorno. La parte alta del villaggio è esposta al sole, mentre sulla parte sottostante tutto è ricoperto da piccoli aghi di ghiaccio. Decido di procedere lungo una ripida scalinata per andare a vedere il panorama di roccia. Un rigagnolo di sangue ed escrementi di gallina segnano il percorso da seguire. Come Pollicino, seguo il sentiero lasciato dagli animali e inizio l’arrampicata. Al primo appoggio stabile mi fermo per riprendere fiato. Ancora uno sforzo e finalmente vedrò le abitazioni troglodite di Kandovan. Sento un rumore di passi svelti. Senza la minima ombra di fatica, un uomo si sta dirigendo verso di me. Indossa un maglione molto largo e la sua pelle è cotta dal sole. Sembra vecchio, ma in realtà non lo è. Inizia a bombardarmi con una raffica di parole incomprensibili. Mentre cerco di emettere un suono diverso dal fiatone, gli faccio presente che non parlo persiano. Non sembra interessato. Continua il suo monologo. Mi chiede il telefono e mi scatta una foto. Dopo l’apnea per avere una faccia presentabile, tiro un sospiro di sollievo che però dura poco. Mi invita a seguirlo. Stordita ed esausta, mi abbandono alla sua volontà. Dietro l’angolo un’altra terribile rampa di scale cosparsa di ghiaccio semisciolto e di sterco di capra. Lui procede svelto come uno stambecco, saltando due gradini alla volta. Poi si ferma e con l’indice tremolante mi indica un punto. Io sono ancora dove mi ero fermata. Quasi pentita di avergli dato retta, ispiro profondamente ed affronto la salita. Quando arrivo da lui le mie labbra iniziano a bruciare. Mentre una gallina mi passa accanto incuriosita, alzo lo sguardo e vedo finalmente i coni lavici di Kandovan. Tante piccole finestrelle colorano le facciate di questi antichi karaan, il termine utilizzato per identificare le abitazioni nella lava. La moderna linearità degli infissi stride con l’asimmetria delle formazioni rocciose e fa subito capire che i coni, a differenza della Cappadocia, non sono stati restaurati o aperti al pubblico. Il turismo non è ancora arrivato e tutto sembra rimasto fermo a quando gli abitanti della regione, in fuga dalle invasioni mongole, si rifugiarono all’interno delle montagne. Il mio accompagnatore è immerso nei suoi pensieri. Tiene il dito in bocca e pare alla ricerca di qualcosa di ben nascosto negli abissi della sua mente. Approfitto del suo stato di semi-incoscienza per procedere di qualche altro gradino, mentre guardo il fantastico panorama. Tutto è avvolto in un profondo e antico silenzio. Un’atmosfera surreale che fa dimenticare di essere nel mezzo del nulla. Chiudo gli occhi e mi lascio pervadere dagli ultimi raggi caldi di sole. ‘’Teacher’’ urla all’improvviso. Le galline nascoste dentro l’androne di una casa, starnazzano e scappano dallo spavento. Lo guardo con il cuore in gola. Bene mio caro accompagnatore non richiesto, mi fa piacere che tu abbia ricordato la parola che stavi cercando con tanto zelo, ma la puoi anche dire senza rendermi sorda. Compiaciuto e soddisfatto, continua a ripetere la stessa parola come una balbuzie che non accenna a terminare. Ubriaco di euforia, si rimette in marcia lungo un’altra scalinata, spronandomi a seguirlo. La sua gioia inarrestabile non mi contagia, anzi. Ci sono altri gradini da fare ed essendo nata in Pianura Padana con le gambe e non con le zampe e il fiato di uno stambecco, decido di giocare d’astuzia. Mi infilo con agilità nel suo vortice di esaltazione. ‘’Teacher?  What subject do you teach?’’. Ecco il dito che torna in bocca. Perfetto. Ho vinto il silenzio e qualche minuto in più per riprendere fiato ed arrivare in cima prima di lui. Con una goccia di sudore freddo che scende lungo la schiena, parto alla conquista di un altro livello. Arrivata in cima, controllo che il dito sia ancora in bocca. Mi sistemo il velo e inizio a scattare qualche foto. Ed ecco che nell’ultima inquadratura vedo lo strano tizio che ho incontrato questa mattina nella sala da tè nel bazar di Tabriz. Abbasso il telefono. Mi saluta da lontano. 

 

Il cameriere mi raggiunge con un caffè turco fumante. Mi siedo nel tavolo vicino al ragazzo dai capelli chiari. Fosse stato iraniano mi sarei seduta al suo tavolo, ma la prassi occidentale non va dimenticata. Tuttavia, questa nuova energia condita di modi di fare gentili e socievoli, mi spinge ad interagire con lui. È il primo turista occidentale che incontro e sono curiosa di sapere il suo pensiero. Lui però non sembra essere dello stesso avviso. Il suo sguardo è rapito dalla cannuccia del frappè al cioccolato. La postura contratta mostra un’evidente chiusura. Lo saluto. Come risvegliato da un sonno profondo, contraccambia con un sorriso stitico. Poi ritorna in letargo. Ma siamo così? Spigolosi, freddi e avari di parole? Strano vedersi da fuori. All’improvviso mi sembra di essere in viaggio verso casa. No mio caro, non mi farai tornare indietro. Sposto la pesante sedia in legno, facendo volontariamente rumore e mi siedo rivolta nella sua direzione. Lo fisso senza abbassare lo sguardo. Ti faccio vedere cosa significa stare in Iran. Sorridimi. E non perché vuoi, ma perché qui è legge. Si sente sotto tiro. Gli viene caldo. Abbassa di qualche centimetro la cerniera del giubbotto che sembra strozzarlo. Bene, comincia a capire. Senza che me lo chieda, gli dico che sono italiana e che sono da poco arrivata in Iran. Devo incalzarlo per portarlo ad essere cortese. Gli chiedo da dove viene. ‘’Sono polacco’’. Quanta fatica per mettere insieme due misere parole. Mostro il mio interesse per questo grande paese che non ho ancora visitato, ma che mi incuriosisce molto. Nessuna reazione. La cannuccia del frappè è ancora più stimolante della mia presenza. ‘’Sei da molto qui in Iran? Ti piace?’’. Mi ride in faccia con un sentenzioso latrato. Le mie labbra si contraggono come un arco pronto a scagliare dardi di parole. Questo moto di inspiegabile ilarità saccente è mortificante. Ma non mollo. Con una fatica immensa, domando il motivo di questa simpatica risata. ‘’Sono qui da tanto. Se mi piace l’Iran? Mah, non so’’. Bevo un sorso di caffè. La sua risposta mi ha spiazzata. Impossibile non avere un’opinione. Alzo il velo come una barriera e mi metto a fissare i tappeti appesi alle pareti della sala da tè. Non avevo notato che fossero così ricchi di decorazioni e dettagli. Forse anche lui sotto questa superficiale arroganza ha dei disegni nascosti. Sicuramente. Cambio tattica. Devo giocare al suo gioco se voglio vincere i suoi segreti. La nostra legge prevede di mostrare disinteresse per ottenere interesse. La applico alla lettera ed assumo un atteggiamento simile al suo, freddo, distaccato, quasi contrariato. Funziona. La mia repentina indifferenza lo colpisce. Il suo sguardo abbandona la cannuccia. Continua a guardare i tappeti e ignoralo. Abracadabra. Le porte del suo cuore si aprono. ‘’Sono arrivato due giorni fa da Shiraz. La conosci?’’. Rido senza guardarlo. Adesso è lui a sentirsi mortificato. Vediamo la prossima mossa. Con una sadica smorfia compiaciuta, mi dice di dimenticarmi dei poeti, dei lussureggianti giardini e dei preziosi specchi. La città fino a due giorni fa era in balia delle rivolte contro l’aumento del petrolio. Le strade erano impercorribili a causa di focolai e manifestazioni violente. Tutto era avvolto da fumo nero e denso. La gente restava barricata in casa. Addirittura ha udito degli spari. Il caffè mi si ferma in gola. Non avevo previsto questo potenziale scacco matto. Mi sta dicendo che Shiraz, la città che mi ha rapito il cuore ancora prima di incontrarla, non è come credo che sia. Le sue parole mi fanno abbandonare l’incanto del bazar. Rivedo i titoli dei giornali. Risento i notiziari che riportano il numero sommario delle vittime di questa protesta popolare. Cento, forse duecento manifestanti uccisi. Le foto delle strade di Teheran messa a ferro e fuoco scorrono davanti ai miei occhi. ‘’Morte all’America’’. Banche ed edifici pubblici dati alle fiamme per rivendicare diritti non riconosciuti. Ma aspetta. Non starai tentando di riportarmi nuovamente indietro? Lo guardo. Poso la tazzina. Non ha motivo di dirmi una menzogna. So che dice la verità. Eppure c’è qualcosa che non torna. Sarà anche vero che era in corso una rivolta che è stata sedata con la violenza, ma perché fermarsi a questo? Anche leggendo un qualsiasi giornale straniero avremmo avuto la stessa informazione. Ma tu eri lì. Perché non sei rimasto? Perché non hai aspettato? Paura? No, altrimenti non avresti parlato con un ghigno delle rappresaglie e degli spari. Prima di partire ero a conoscenza della situazione del paese, eppure non mi sono fermata. Mi parla come un portatore di verità. Ma cos’è la verità? La rispondenza piena e assoluta con la realtà effettiva? Si, ma la verità per essere assoluta non prevede l’intervento di attori. Ma tu forse non sei un attore? Vuoi darmi il nome di un volto che non hai mai visto interamente. E non perché si sia nascosto, ma perché hai scelto di non guardarlo. È in attesa di una mia reazione come il boia dopo la sentenza di condanna. Allontano il mio sguardo e resto in ascolto. Una nota alta. Poi un’altra ancora. Questo ritmo è diverso dal nostro. Il cameriere esce dalla cucina di corsa. Con la testa bassa e un mezzo inchino si scusa per non avermi portato l’acqua insieme al caffè. Non ci avevo fatto caso. Ero troppo presa dal gioco. Calmo la sua visibile agitazione. Si scusa ancora, un ospite va sempre trattato come un re. Mentre sposto il bicchiere che sta pericolosamente sul bordo del tavolo, vedo l’acqua oscillare. Una voce mi sta chiamando. Il gioco è finito. Abbiamo vinto e perso entrambi. Ora siamo amici, caro re. La mia ritrovata tranquillità sembra peggiorare il suo umore. ‘’Ho il visto scaduto. Devo riuscire ad oltrepassare il confine’’. Ecco da dove arriva la sua inquieta tristezza travestita da nota alta. Fiduciosa nel valore del suo passaporto, gli domando perché non si presenti alla polizia per farlo presente. Sicuramente lo aiuteranno. Non si fida. Un bel guaio non fidarsi di chi ti sta ospitando. Allora gli suggerisco di raggiungere la frontiera turca. Anche i turchi sicuramente lo aiuteranno. Boccia anche questa opzione. Il visto è troppo caro. Trattandosi di poche decine di euro, capisco che è un clandestino per scelta. Mi spiega che sta attraversando l’Iran in autostop, fermandosi dove trova gente che gli da un rifugio sicuro e del cibo caldo. È la stessa gente di cui non ti fidi, caro re. Ha già preso una decisione: troverà il modo di passare i controlli, dirigendosi verso l’Iraq. Sono divisa. La mia mente vorrebbe chiedergli se ha bisogno di soldi per rinnovare il visto e sbloccare la situazione. Ma il mio cuore mi ferma. Guardalo. Non è felice. Ancora non sa di essere un re. Ha lasciato la sua casa molti giorni fa, ma il suo viaggio è appena iniziato. Chi sono io per fermarlo? Il ritmo mi richiama a sé. La pausa è finita. Prima di lasciarlo per ritornare al mio viaggio, gli parlo di un paese che si trova nelle vicinanze di Tabriz. Kandovan è il suo nome. Un paese piccolo che forse non merita nemmeno una visita. Non è interessato. Sorrido. Mi sorride. Buona fortuna giovane re. Stanotte dormirai in un camino di fata.

 

Poso la matita. Sono esausta. Alzo lo sguardo e vedo nel riflesso dello specchio che il cielo ha iniziato a cambiare colore. Le luci di Tabriz si sono spente e gli stradini sono spariti. Anche i cani hanno smesso di abbaiare. Proprio adesso che il mio spirito si è calmato è ora di rimettermi in marcia.  Prima di lasciare la camera guardo verso sud. Una fredda brezza mi scompiglia i capelli e mi ricorda di avere le labbra bruciate. Chiedo notizie al vento. Chissà dove sta dormendo il giovane re. Spero che anche dalla sua inquietudine nasca qualcosa di buono. Con questi pensieri, lego i miei capelli nel foulard e parto con la mia valigia di speranze verso una nuova avventura.

Shi-raz.

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A circa un’ora di auto da Tabriz si trova Kandovan, la cosiddetta ‘’Cappadocia’’ dell’Iran. Situato sulle pendici settentrionali di una valle ai piedi del monte Sahand nella provincia di Osku, il villaggio viene associato alla bella Cappadocia per la particolare conformazione geologica molto simile ai camini di fata di Göreme. La caratteristica peculiare di Kandovan sono le abitazioni troglodite scavate nelle lahar, delle colate di fango composte da materiale piroclastico e acqua che scorrono lungo le pendici di un vulcano. Queste forme coniche sono il risultato delle antiche attività vulcaniche delle montagne del Sahand. Nel tempo, mentre la lava si raffreddava, i gas intrappolati all'interno di queste strutture si sono diffusi e sono sfuggiti, creando piccole caverne e buchi all'interno dei coni. Tali buchi, che svolgono un ruolo importante nella ventilazione naturale e nell'illuminazione, e la composizione del tufo lavico, un materiale facilmente lavorabile e con ottime proprietà termiche, hanno favorito il popolamento dei coni di Kandovan. Le abitazioni sono note come karaan, in volgare ‘’kran’’, e sono organizzate a più livelli: il pianterreno viene solitamente utilizzato per gli animali e gli attrezzi di lavoro, mentre dal primo piano sino alla sommità si trovano le stanze per la famiglia e la dispensa. Queste abitazioni sono spesso collegate tra loro da ponti di legno che si inarcano sui solchi creati dal corso naturale di antichi torrenti. L’area risulta abitata sin dal 4.000 a.C., ma fu soltanto durante le invasioni mongole della Corasmia che gli abitanti in fuga iniziarono ad abitare le karaan. L’abbondanza di terreni agricoli, il cibo per il bestiame e l’acqua del fiume Kandovan sono tra i motivi principali per cui questo villaggio è rimasto funzionale e abitato, anche se si sta profilando la reale possibilità che nei prossimi anni si tramuti in un paese fantasma. Un censimento del 2006 ha stabilito che il numero di abitanti di Kandovan si aggiri attorno ai 600 individui, per un totale di circa 140 nuclei famigliari (nel 1987 erano 765 persone e 152 famiglie). Uno studio intitolato ‘’Conservazione di Kandovan, basata sulla patologia del declino della popolazione’’ del prof. Nasim Ashrafi pubblicato sull’International Journal of Architecture and Urban Development nel 2013, ha identificato delle soluzioni per scoraggiare l'emigrazione dei suoi abitanti, fornendo degli incentivi economici e culturali, e facilitando il progresso costante della qualità della vita nel villaggio, preservandone l'integrità architettonica. La costruzione incontrollata in passato ha portato a numerosi problemi nell'attuazione dei servizi pubblici odierni, tra cui l’infrastruttura stradale casuale che rende ogni spostamento difficile o impossibile, la mancanza di gas naturale per uso domestico e l’assenza di un sistema fognario adeguato. Per risolvere questi problemi, spiega il prof. Nasim Ashrafi, è necessario dare una scossa all’economia locale, puntando sulla conservazione e sulla valorizzazione del patrimonio architettonico in un’ottica ecosostenibile. Kandovan, infatti, oltre ad essere l’unico villaggio troglodita al mondo ad essere ancora (si spera anche in futuro) abitato, ha molte risorse inutilizzate, prima tra tutte la vicinanza geografica alla cima principale della catena montuosa del Sahand che vanta 17 vette che superano i 3000 metri di altitudine, rappresentando una meta ideale per scalate e sport invernali. Inoltre, una sorgente di acqua minerale situata al centro del villaggio che produce 0,5 litri di acqua al secondo, è stata classificata come sorgente fredda di calcite solforica, ottimo rimedio naturale per i calcoli renali. La costruzione del Laleh Hotel, un alloggio a quattro stelle situato all’entrata del villaggio, ha indubbiamente dimostrato un notevole impulso all'economia della regione. Più di 300.000 turisti (un terzo dei quali erano visitatori internazionali) hanno visitato Kandovan nel 2009, giustificando l'investimento di un milione di dollari effettuato per il completamento della prima fase della costruzione dell'hotel, tutto rigorosamente rispettando le tecniche e i materiali originali del villaggio. Se venissero migliorate le condizioni di vita degli abitanti del villaggio e se fossero stanziati nuovi fondi per gli investimenti nell'industria dell'ecoturismo della regione, Kandovan potrebbe diventare un luogo da cui smettere di scappare. Ma per ora una scuola, una moschea, un bagno pubblico, l’hotel e qualche negozio sono le uniche attività del villaggio. Nonostante questo, in questo remoto angolo di Iran si riesce a vedere uno spaccato di vita reale, incontaminato. Praticamente nessuno parla inglese e i pochissimi turisti (io ero l’unica) vengono guardati con curiosità. Sbirciare all’interno delle case, giocare ad evitare i sentieri di escrementi di gallina con salti stile campanone e incrociare i bellissimi occhi delle donne avvolte nei loro colorati chador, sono sole alcune delle ragioni per cui venire a Kandovan. Non ci sono le sublimi sagome delle moschee o i sontuosi palazzi a tenerci a testa in su, ma un cielo limpido e una semplicità disarmante che profumano di umanità.

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