TABRIZ

LA LINGUA DEGLI SGUARDI

Piacere Iran, danziamo insieme? Tienimi per mano.

Fammi vedere solo una parte del tuo volto. Non farti scoprire.

Fammi sentire il tuo profumo. Non farti prendere.

Lasciami così. Scappa.

Lasciami così. Vincente.

Lasciami così. Vinta.

Lasciami così. Libera di tornare da te.

Tabriz è stata la prima prova che ho trovato lungo questo cammino. Un incontro di incontri che mi hanno permesso di sfiorare l’essenza contradditoria di questo indecifrabile Paese. Fin dai primi momenti ho avvertito una strana sensazione. Avevo preso molte informazioni: ero consapevole di trovarmi nella maggiore città degli azeri, avevo letto molto sulle sue sette meraviglie e conoscevo il pensiero di Marco Polo riguardo l’indole dei suoi abitanti nel passato e la pregevolezza delle merci del suo antichissimo bazar. Nonostante questo, non mi sentivo a mio agio. Ero teoricamente preparata, ma emozionalmente non pronta a questo incontro. Mi sentivo straniera contro la mia volontà. Ero divisa in due tra la voglia e la paura di entrare in questo mondo. Una paura non dettata dall’essere sola in una terra definita nemica, ma dall’essere certa che avrei ricordato ciò che sapevo da sempre. Era come se una voce proveniente dalle montagne volesse dirmi qualcosa di urgente in una lingua sconosciuta. Sentivo il ritmo di questa terra. Ero inquieta, ma ero certa che da quell’irrequietezza sarebbe nato qualcosa di buono. Un proverbio persiano recita ‘’Cerca la verità nella meditazione e non negli oscuri libri’’. Ho deciso di seguire queste parole e di mettere da parte i libri e il timore. Ho iniziato a parlare la lingua degli sguardi, un idioma che funziona solo tra le anime antiche che ballano allo stesso ritmo. Mi sono lasciata sedurre dalle meraviglie del bazar e dalla cortesia dei suoi mercanti. Ho giocato con i draghi di luce riflessi sui tappeti. Ho camminato tra i camini delle fate di Kandovan. Ho sorriso tanto e ho dimenticato il nostro concetto di tempo. Mi sono lasciata offrire molti tè. Ho diviso il pane con uno sconosciuto. Ho incontrato un re travestito da viandante clandestino. Ho bevuto un caffè con due occhi iracheni, sancendo un’amicizia simbolica che, come dice il proverbio turco, durerà per 40 anni. Ho parlato con quante più anime potevo. Ma c’era un ultimo dialogo di sguardi ancora da fare. Un dialogo feroce che avevo temuto e rimandato. Ma l’ultimo giorno, una mostra fotografica allestita nell’area partenze dell’aeroporto di Tabriz, mi ha messo con le spalle al muro, costringendomi all’ultimo terribile scambio tra occhi. In tutti i giorni precedenti avevo visto lungo le strade le fotografie dei martiri della guerra tra l’Iran di Khomeini e l’Iraq di Saddam. Il mio sguardo si era sempre abbassato per un profondo e inspiegabile senso di colpa. Quelle fotografie appese vicino all’area dei controlli di sicurezza e illuminate da forti neon, mi hanno dato la possibilità di sfidare la mia codardìa. Il profumo di vita dei sorrisi del bazar, si è mischiato con un odore pungente che mai dimenticherò. L’odore della morte. Un odore di destino sospeso, in attesa che la terza Moira tagli il filo. La nostra mente ritorna prepotentemente vigile davanti a queste vicende. La morale e l’etica si rifiutano di voler accettare che questo è successo realmente e in un tempo non remoto. Giovani ragazzi sorridenti mostrano fieri i loro kalashnikov. Un uomo giace a terra con il petto trivellato. Altri ancora si lavano in una pozza di acqua e fango. Un gruppo di donne viene istruito su come confezionare ordigni bellici. Tante storie, ma tutte con la medesima fine: la morte. Un destino non dato da un fato crudele, ma dalla volontà di morire per la propria terra. Per un momento il ritmo si interrompe. Un misto di rabbia e avversione mi prende in ostaggio. Risento le voci delle montagne. Una lacrima di pietà spegne il fuoco della collera. Cerca di capire senza giudicare. Non parlare con la mente, ma ascolta con il cuore. Non sono kamikaze, vigliacchi che volontariamente si fanno saltare in aria per uccidere militari e civili, ma martiri, uomini che consapevolmente decidono di immolarsi per salvare il proprio paese. Una differenza che fa la differenza. Nonostante il mio cuore mi suggerisse le risposte, le domande ritornavano assordanti nella mia mente davanti agli sguardi di questi giovani ragazzi che hanno lasciato una vita ancora da vivere. L’Iran dei sorrisi o delle pallottole? L’Iran del tè o del sangue? L’Iran della vita o della morte? La risposta definitiva me l’ha donata il silenzio di un bambino che come me guardava le foto. Ho letto nei suoi occhi innocenti la fierezza di essere nipote di quegli uomini che si sono sacrificati. Ho visto riflesso nel suo sguardo lo stesso orgoglio che provo io per i miei nonni. Nel silenzio dei suoi occhi ho sentito la composta e fiera dignità dell’Iran. Di Tabriz e della vicina Kandovan custodirò la memoria di quel bambino e degli occhi della sua gente. Il loro ricordo non può essere catturato, perché è invisibile come il silenzio, forte come l’orgoglio e percepibile solo da chi ha il cuore pronto per amare. Lascio a voi immaginarli.    © Riproduzione Riservata

Tabriz, in lingua persiana antica Tauris, è la capitale della provincia dell’Azerbaijan orientale, oltre ad essere la quarta città più grande dell'Iran. Si dice che il nome Tabriz derivi da tap-rīz ("far fluire il calore"), a causa dalle numerose sorgenti termali della zona. Chiamata anche Gazaca, Tabriz era la capitale di Atropatene, dal nome di Atropate, uno dei generali di Alessandro Magno. Il primo nucleo urbano fu distrutto da un forte terremoto e la città fu ricostruita nel 791 d.C. Da sempre importante snodo carovaniero, Tabriz ha rappresentato per secoli un crocevia culturale e commerciale. Mongoli, indiani, ottomani, georgiani, arabi, armeni e russi hanno sempre frequentato i mercati di Tabriz, rendendola una delle città più famose dell'Asia. All’inizio del XIV secolo divenne capitale dei domini del sovrano mongolo Maḥmud Ghāzān, raggiungendo l'apice della gloria e dell'importanza. Oltre ai commercianti della Via della Seta, anche artisti, poeti, mistici e filosofi si recavano a Tabriz per trarre ispirazione. Nel 1392, dopo la fine del dominio mongolo, la città fu saccheggiata da Tamerlano, fondatore dell'Impero timuride. Nel sec. XV fu per un breve periodo la capitale del regno dei Karā-Koyūnlū (in turco ‘’montone nero’’), una dinastia turca che fino ad allora era stata vassalla dei mongoli Gialairiti di Baghdād. Sotto il governo del Montone Nero fu costruita la Goy Masjed (in persiano Masjed- e Kabūd), la più grande e maestosa moschea della città che prende il nome dal blu delle ceramiche che ricoprivano l’edificio. La Moschea Blu fu gravemente danneggiata da un terremoto nel 1778 e la preziosa ceramica è stata sostituita da piastrelle non originali e da dipinti. Sotto i Safavidi, Tabriz passò da capitale regionale a capitale nazionale per un breve periodo, ma il secondo dei re Safavidi, Shah Tahmasb, spostò la capitale a Qazvin a causa della vulnerabilità di Tabriz agli attacchi ottomani. Durante i 200 anni successivi Tabrīz passò di mano più volte tra Iran e Turchia. I russi la occuparono nel 1826 e il Bāb, il fondatore della religione Bābī, una setta islamica antenata della fede bahaʿi, fu giustiziato qui, insieme a migliaia di suoi seguaci, negli anni '50 dell'Ottocento. La città entrò poi in un periodo di decadenza, contesa da iraniani, ottomani e russi e fu colpita da altri terremoti. Tabriz era la residenza del principe ereditario sotto i re Qajar, ma la città non tornò alla prosperità fino alla seconda metà del XIX secolo. La svolta per Tabriz è arrivata con l'apertura dell'Iran all'Occidente all'inizio di questo secolo, quando è diventato il principale punto di transito tra l'interno dell'Iran e il Mar Nero e, per un breve periodo, la capitale economica dell’Iran. Nel 1908 fu al centro della rivoluzione nazionalista e liberale, repressa solo con il brutale intervento dei russi. Nella seconda guerra irano-russa la città fu occupata dalle truppe dello zar, ma fu restituita all’Iran dopo la firma del Trattato di Turkmanchai, un accordo di pace e commercio che pose fine alla guerra irano-russa del 1826-1828. Durante la seconda guerra mondiale fu nuovamente occupata dai sovietici che aiutarono un movimento separatista a stabilire una regione autonoma in Azerbaigian, con Tabriz come capitale. L'Iran e l'Unione Sovietica raggiunsero un accordo nel marzo 1946 che prevedeva il ritiro delle truppe sovietiche in cambio della creazione di una compagnia petrolifera per azioni. 

Politica, guerre e terremoti hanno più volte sconvolto e distrutto Tabriz, che però ha mantenuto nel corso dei secoli il suo primato commerciale grazie all’artigianato, in particolare ai preziosi tappeti. Dei monumenti storici della città resta ben poco, ma l’antico fascino di Tabriz vive all’interno del Bazar, uno dei più antichi mercati del Medio Oriente e il più grande bazar coperto del mondo. Iscritto come patrimonio dell'umanità dall'UNESCO nel luglio 2010, il Bazar è la ragione per cui venire a Tabriz. La merce, i numerosi caravanserragli e la cortesia delle persone ci fanno sentire dei moderni Marco Polo e ci mostrano uno dei mille volti dell’Iran.

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