TEHERAN

L’INCANTESIMO DELLE COERENTI INCOERENZE

Le capitali mi hanno sempre dato un grande senso di sicurezza. Sono tutte diverse, eppure funzionano con i medesimi meccanismi. Una cartina in mano e l’euforia si libera. Il sapere di poter contare su questa certezza, non mi ha mai fatto percepire la visita di Teheran come un’impresa aleatoria, anzi, ha rappresentato una risorsa per entrare nelle dinamiche non sempre semplici dell’Iran. Teheran ha una bellezza non ovvia e immediata. Mille sono i modi di percepire la sua anima, come mille sono i modi di identificarla. È strabiliante la moltitudine di effetti che può provocare il suo nome. Se per me è diventata l’indirizzo della nostalgia, per molti altri è sinonimo di indifferenza o paura. Solo a nominarla, alcune persone si immobilizzano e si tramutano in statue che tentano invano di celare sconcerto e dissenso. ‘’È lì che vai? Ah… bene. Stai attenta!’’ Ebbene sì, è lì che vado e sì, starò attenta a non perdermi nulla. Mi fanno sempre sorridere le espressioni dei miei conoscenti quando mi chiedono se ho in mente qualche viaggio. Non mi hanno mai domandato il motivo per cui ho scelto una destinazione. Non mi hanno nemmeno mai chiesto al ritorno cosa avessi visto o provato, come se il fatto che fossi tornata in aereo e non in una bara fosse sufficiente. Quando la meta è fuori dalle rotte ordinarie, capita che si interessino del cibo, dell’economia, del livello d’istruzione e della situazione igienica. Ma se si parla di Iran, accade che anche queste vane domande muoiano ancor prima di nascere. Mi viene solo chiesto se non ho avuto paura di viaggiare da sola in un paese così terribilmente pericoloso. Una sola volta ho avuto timore. Paradossalmente non mi trovavo in Iran o in un altro stato straniero, bensì nel mio paese d’origine. Prima di un evento in cui condividevo il racconto di un viaggio in Turchia, una signora mi riprese sui social per aver proposto un simile tema. Le dissi che la Turchia è un paese straordinariamente bello e che era un peccato perdersi l’occasione di poterlo conoscere da un punto di vista differente. Lei mi rispose che non era importante sapere cosa perdeva, ma quello che ci guadagnava: la vita. Quella volta ho avuto paura. La sua veemente sentenza non era scaturita da un moto d’impeto, ma da una profonda e radicata convinzione. Il veleno instillato dai servi della politica verso un qualsiasi stato del Vicino o Medio Oriente si era impossessato di lei, la quale, evidentemente, non aveva adeguate difese immunitarie. Viaggiare in ‘’questi paesi’’ comporta il dare spiegazioni non necessarie, ma sempre richieste. Quando poi ci si invaghisce dell’Iran si deve trovare un motivo logico, come se le impressioni positive andassero sempre e comunque giustificate. E pensare che non esiste nulla di razionale. Da quando l’amore lo è diventato? Come quando si ama una persona, anche quando si ama un Paese non lo si decide, lo si fa e basta. Le ombre e le luci corrono di pari passo. Spesso Teheran viene definita la ‘’città delle contraddizioni’’. Negli ultimi giorni trascorsi tra le sue vie e tra la sua gente, invece di concentrami sui tanti musei e palazzi, ho preferito continuare il percorso che avevo iniziato a Tabriz, calandomi ulteriormente in questa complessa realtà. Ho voluto rapportare a me stessa tutti quei fattori che parevano discordanti tra loro. Negli apparenti contrasti di Teheran ho rivisto i miei. Li ho condannati, li ho perdonati, li ho respinti, li ho ritrovati. Alla fine mi sono resa conto che non erano in lotta tra loro perché facevano tutti parte della medesima personalità. Definirle ‘’contraddizioni’’ risulta, quindi, un po’ limitativo perché in questo termine giace una sorta di dualismo che ci impone di vedere in bianco e nero. La realtà è molto più complessa e articolata. Si tratta di tanti aspetti molteplici appartenenti ad unica identità. Forse può risultare difficile da capire perché abbiamo la tendenza a limitare per controllare i pensieri e le impressioni in entrata e in uscita. Qui la semplificazione non esiste. Tutto, anche quello di cui siamo certi, viene messo in discussione. La bellezza di Teheran sta proprio in questo, nella sua indecifrabilità. Appena rientrata dal viaggio, ero restia a parlare di quello che avevo vissuto. Non avevo semplicemente fatto uno spostamento fisico. Non avevo solo visitato dei monumenti, dei siti, dei mercati o dei musei, ma avevo iniziato a vivere una serie di emozioni che non si limitavano solo ai giorni trascorsi tra la sua gente, ma che continuavano oltre. Delle emozioni che richiedevano tempo per essere metabolizzate e tradotte in una lingua comprensibile. Condividerle o proteggerle? Questo è un dilemma che l’Iran mi ha aiutato a superare, un dilemma che mi porto dietro dai tempi in cui ho vissuto per quasi due anni in una cittadina al confine tra Marocco e Algeria. Di quell’esperienza sono sempre stata restia a parlarne, un po’ perché era doloroso, un po’ perché ho sempre dovuto affrontare giudizi sommari e facili banalizzazioni. Una gelosia protettiva verso i miei pensieri mi ha fatto adottare l’arma del silenzio contro chi in questa storia ci vedeva solo una potenziale conversione all’Islam come unica giustificazione alla mia lunga permanenza in un paese arabo. Saadi scrisse “Se il tuffatore pensasse sempre allo squalo, non metterebbe mai le mani sulla perla.” Quella volta optai per il silenzio, questa volta scelgo di scrivere. Teheran c’entra in tutto questo. È una città a cui viene erroneamente data un’importanza minore rispetto alle altre bellezze dell’Iran, ma in lei vive una forte identità che non ha paura dei facili pregiudizi o del mancato consenso. Non chiede di essere spiegata, ma solo raccontata. Un compito di non facile riuscita. È come una poesia che ci viene recitata da uno straniero che non parla la nostra lingua. Le sue strofe hanno un suono bellissimo, ma non riusciamo a comprenderne appieno il significato. Lo intuiamo, ma non riusciamo a definirlo. E mentre cerchiamo di afferrarne la magia, si affaccia l’ombra del tempo. Ci sentiamo irrisolti come se l’avessimo solo intravista dal buco di una serratura. Eppure quel secondo in cui l’abbiamo scorta, sa riempire molti giorni. Il tempo. Sembra divenire un nemico beffardo quando scorre. Le ore che mancano all’imbarco verso casa incombono come crudeli ladre di possibili incontri. Ma Teheran ci mostra un nuovo volto del concetto di tempo, non simile ad una linea retta, ma ad un grande cerchio. Una volta che ne abbiamo tracciata la circonferenza, diventa impossibile vederne l’inizio e la fine. Ne ho avuto la conferma grazie ad un inatteso incontro avvenuto poche ore prima della partenza nella stessa piazza in cui arrivai il primo giorno. Un uomo stava intonando un canto che copriva i rumori caotici del traffico e apriva i cuori dei passanti. Quando, seguendo la sua mistica voce, vidi la sua lunga barba di vetro e il daf, un sorriso rassicurante nacque dal mio cuore. Le sue parole non mi erano nuove. Ritornavano per dare sollievo alla mia tristezza. Non può finire ciò che non ha avuto inizio e non può iniziare ciò che non avrà fine. In Iran i dervisci devono nascondersi perché fuorilegge, pena l’esecuzione. Ma lui era in quella piazza a cantare d’amore. Un amore che va oltre le apparenti contraddizioni, un amore che non ha spazio, un amore che non ha tempo. Un amore che non ha paura dello squalo, proprio come questo incantesimo di coerenti incoerenze di nome Teheran. 

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