Lungo i binari della storica ferrovia che costeggiava il confine sudorientale tra Marocco e Algeria, si trova una cittadina di paglia e argilla. Il suo nome è Figuig, l’ultima oasi del Marocco prima delle montagne algerine. La frontiera tra i due paesi è stata chiusa dal governo di Algeri nel 1994 a causa dell’introduzione dell’obbligo di visto ai visitatori algerini, a seguito di un attacco terroristico ad un ostello di Marrakech. Nonostante il Marocco abbia revocato l'obbligo del visto nel 2004, il confine è tuttora chiuso. Le barriere disegnate dai politici spesso non coincidono con le frontiere del commercio e ancor meno con quelle degli affetti. L’economia di Figuig subì un grave danno: molti palmeti furono abbandonati o diventarono inaccessibili, i nuclei famigliari si disgregarono e in molti furono costretti ad abbandonare la città per trovare lavoro. Avvicinandosi alla frontiera, si capisce quanto sia irragionevole questa situazione: due torrette sorvegliate da un paio di soldati, fanno la guardia a ruderi abitati da cani randagi. A pochi metri, le montagne algerine appaiono come un miraggio con le loro strade ben asfaltate e sicure. Voltandosi, si vedono palme, case d’argilla in rovina e una quiete surreale. Tutto si è fermato su questa linea. I governi hanno abbandonato il buon senso e hanno chiuso le porte al futuro di una regione intera. E pensare che a Figuig le porte non sono mai chiuse. Teli sbiaditi dal sole sono gli unici confini tra l’esterno e l’intimità delle case. Un soffio di vento e un sorriso, sono i visti per varcare il confine tra l’essere uno straniero e diventare un ospite gradito. La prima volta andai a Figuig da sola. Fu una bella impresa per la mia capacità d'orientamento riuscire a non perdermi tra la grande oasi di palme. Ancora più ardua fu la ricerca di un ristorante. Quando mi stavo arrendendo a comprare una scatoletta di tonno in uno dei pochi minimarket della medina, vidi una signora anziana che con l’unico occhio lasciato scoperto dal tradizionale abito bianco berbero, mi invitava a seguirla. La sete fu placata con un bicchiere di latte, la fame saziata con dei datteri e il cuore sfamato dalla vista del suo volto pieno di rughe. A differenza della vicina Bouarfa, l’unica città confinante, in cui gli abitanti sono di etnia e lingua araba, a Figuig sono tutti berberi. Guai a fare matrimoni misti. Chi è berbero si sposa con un berbero, chi è arabo si sposa con un arabo. Semplice. In questo modo si tenta di preservare le antiche tradizioni e l’appartenenza etnica. Per noi può risultare difficile da comprendere, ma per loro è molto importante mantenere un’identità che ancora fatica ad essere riconosciuta. Ad accumunare queste due etnie sono lo stile di vita semplice e la profonda dignità. Anche l’ultimo degli ultimi, si rende sempre protagonista di un gesto generoso. Quelle pochissime cose che possiede, le condivide con una gioia sincera. Questa purezza d’animo e l’assoluta mancanza di egoismo, ci fa impallidire. Noi che abbiamo tutto, in realtà abbiamo poco. Quella donna che mi fece entrare senza sapere nemmeno da dove venissi e mi offrì un bicchiere di latte, mi insegnò che una chiave non è solo uno strumento per chiudere una porta, ma è la metafora di un atteggiamento che ci induce ad estraniare quello che non fa parte del nostro mondo o che sembra non portare benefici. Ecco perché queste realtà in cui non esistono vantaggi o svantaggi, ma solo un arcaico e puro senso di umanità, sono preziose per noi occidentali, troppo abituati a chiudere tutto a doppia mandata. È stato bello vivere in un luogo lontano dal nostro concetto di mondo evoluto, in cui la chiave non esisteva, né per le porte, né per i cuori.